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FOREVER YOUNG? LA SINDROME DI DORIAN GRAY

E’ storia recente, ma l’unico proiettile d’argento «contro il logorio della vita moderna», lo ha sempre e solo decantato il Cynar, l’amaro a base di carciofo tanto caro all’attore di teatro Ernesto Calindri. Troppo recente anche per Dorian Gray, il protagonista del romanzo di Oscar Wilde, che per mantenere eterna la giovinezza, per scacciare le rughe dello spirito e della pelle, è stato costretto a vendere l’anima al diavolo.

La necessità di opporre strenua resistenza all’invecchiamento e al terrore che il corpo si pieghi al passare degli anni, è nota, non a caso, come sindrome di Dorian Gray. Sintomi tipici dei tempi ultra moderni.

OSCAR WILDE

Dorian Gray per scongiurare gli effetti del tempo, fece un patto: lo specchio gli rimandava quello che era stato; il quadro, quello che stava diventando.

Giovane dalla straordinaria presenza e dai modi aristocratici, affascina il pittore Basil Hallward. L’infatuazione è tale che Hallward decide di immortalarne la bellezza in un ritratto dalla perfetta somiglianza. Dorian vedendo la sua immagine così perfetta, ne resta turbato e formula l’augurio che la vita non lasci mai alcuna impronta sul suo volto ma che, al contrario, vada a segnare quello del ritratto. Ed è ciò che succede: Dorian si dà a una vita di piaceri senza scrupoli, cominciando a disfarsi di tutti coloro che ritiene inopportuni, dalla giovane innamorata Sybil che abbandona e che per il dolore muore suicida, fino all’amico pittore che uccide di sua mano per il disappunto di sentirsi rimproverato. Ciò nonostante il suo volto continua a restare quello di un bellissimo adolescente incontaminato. Ma, di tanto in tanto, andando a sbirciare il ritratto Dorian ne scorge le terribili mutazioni e un giorno, non sopportandone più la vista, si avventa sulla propria immagine…

SINDROME & SINTOMI

La sindrome di Dorian Gray viene descritta per la prima volta dallo psichiatra Brosig, nel 2000, in un testo intitolato con questo nome, per dare risalto al gran numero di pazienti che lo contattano per la paura di invecchiare (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11471770). La nota più grave di questa sindrome è che chi è ne affetto arriva, talvolta, a compiere pericolose pratiche allo scopo di rimanere giovane: chirurgia estetica senza ritegno, eccesso di botox, e via dicendo. Il loro desiderio non è solo rimanere giovani esteticamente: vogliono continuare a vivere la vita come se avessero 18 anni e come tali continuano a comportarsi.

Brosig ha individuato alcuni tratti rappresentativi del disturbo:

– preoccupazione per l’aspetto esteriore;
– dismorfofobia, ovvero l’ossessione per un’imperfezione fisica percepita e spesso non reale (sentirsi sempre troppo grassi, per esempio, o credere di avere un naso anormale);
– eccessivo ricorso ad integratori, cosmetici, farmaci e rimedi medici o chirurgici per perfezionare il proprio aspetto o combattere l’invecchiamento;
– ricorso immotivato a stimolanti sessuali e/o droghe per contrastare la preoccupazione sulla libido e/o l’efficienza erettile;
– interesse smodato per il sesso, con promiscuità sessuale e tendenza a ricercare pratiche sempre nuove e/o estreme.

Di fatto queste persone vivono fra l’illusione e la frustrazione: fantasticano su un nuovo trattamento che restituirà loro la giovinezza ma quando si rendono conto che nulla può trasformare quella fantasia in realtà, si sentono frustrate ma lo considerano come un errore di procedimento e non della loro percezione.

TEMPI MODERNI

Questo disturbo è il frutto della necessità dei bisogni moderni: esaltare la bellezza fisica, cura maniacale dell’apparenza e sessualità come panacea universale della felicità. Ostentazione che oggi è possibile grazie ai social network, i selfie, e la presenza di alcuni programmi televisivi che inneggiano al narcisismo spietato (Uomini e donneL’isola dei famosi, con presentazione di personaggi femminili e maschili proposti come modelli standard di bellezza).

In questo contesto nascono, a testimoniare la plasmabilità della mente e dell’apparato psichico, nuove patologie di derivazione narcisistica, quali ad esempio l’ortoressia (ossessione per il mangiar “sano”) e la vigoressia (ossessione per il fisico perfetto), che si sommano agli aspetti disfunzionali classici quali disturbi dell’autostima e dell’affettività e senso di depressione legata al senso di inadeguatezza o estraneità psicosociale, che colpisce soprattutto i soggetti meno predisposti a adeguarsi ai valori dominanti.

La sindrome di Dorian Gray – che rappresenta la evoluzione negativa di un fenomeno sociale e culturale che va distinto dal disturbo narcisistico vero e proprio – presenta aspetti molto presenti nella vita sociale oggi, che diventano per chi ne soffre, motivo di disagio sociale ed individuale a volte grave.

SUPERFICIALITA’ EMOTIVA

La sindrome di Dorian Gray si evidenzia in corrispondenza dei cambiamenti legati alla maturazione corporea. Eventi come la perdita dei capelli, della tonicità della muscolatura e dei tessuti, l’aumento di peso o la riduzione della prestanza fisica possono scatenare intense crisi. Questa sindrome evidenzia gli aspetti evidenti della superficialità emotiva che oggi domina e impera sui rapporti sociali e di coppia. Piacere e piacersi per quello che si è, deve essere un coacervo inserito profondamente nelle nostre strutture emotive e poco importa se si interagisce socialmente con persone che la pensano diversamente, con persone che non sanno guardare oltre il sottile strato della pelle per cogliere l’altro nella sua completezza e veridicità. Si tratta, quindi, di una situazione complessa che ha bisogno di un intervento psicoterapeutico per essere superata.

Non posso, a questo punto, che concludere con le parole di Wilde o meglio di Dorian Gray… ove è racchiuso tutto il suo pensiero, che non è consapevolezza ma incapacità di stare al gioco della vita: «Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente… Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l’oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla…».

BELLO DA STAR MALE: LA SINDROME DI STENDHAL

Tutti ne hanno sentito parlare. E probabilmente anche tu, se sei anche solo uno sporadico frequentatore di musei e gallerie, conosci qualcuno che afferma di esserne stato colpito. Sto parlando della Sindrome di Stendhal, fenomeno che aggredisce inaspettatamente la persona che si trova ad osservare un’opera d’arte ai suoi occhi di incommensurabile bellezza. Vertigini, tachicardia, confusione, crisi di pianto, ansia… Insomma, la Sindrome di Stendhal, per quanto sgradevole, sembra essere la manifestazione dell’immenso potere dell’arte sulla nostra psiche.

Nota anche come Sindrome di Firenze, venne descritta per la prima volta dallo scrittore francese Stendhal, nel suo libro Roma, Napoli e Firenze. L’autore della Certosa di Parma, sperimentò lui stesso questo fenomeno durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Qui fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo.

RICERCHE E STUDI

E’ stata una psichiatra italiana a teorizzare per la prima volta questa sindrome: Graziella Magherini, responsabile del Servizio di Salute mentale dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Firenze. Nel 1977, analizzò le reazioni di più di 100 turisti usciti dagli Uffizi, in preda a singolari malori, riuscendo a cogliere tratti fra loro comuni. Le sue ricerche sono raccolte in un libro La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte.

Nello studio vennero osservati soggetti per lo più di sesso maschile, di età compresa fra 25 e 40 anni e con un buon livello di istruzione scolastica, che viaggiavano da soli, provenienti dall’Europa Occidentale o dal Nord-America che si mostravano interessati all’aspetto artistico del loro itinerario. L’esordio del disagio si presentò poco tempo dopo il loro arrivo a Firenze, e si verificò all’interno dei musei durante l’osservazione delle opere d’arte.

In merito alla sua ricerca, Graziella Magherini affermò “La Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di colpire gli stati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e strutture che normalmente sono rimosse”.

Già Freud, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno smarrimento cognitivo, l’opera d’arte come importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi.

E poi Goethe, Sterne, Proust e Dostoevskij descrissero successivamente nei loro scritti, con differenti emozioni l’effetto che le opere rinascimentali provocarono quando si trovarono dinnanzi al loro cospetto.

I SINTOMI

Sono vari e possono comparire non solo di fronte a opere d’arte, ma anche ascoltando musica. Vertigini, svenimenti, tachicardia, attacchi di panico, addirittura allucinazioni; che potrebbero in alcuni casi sfociare in stati d’ansia prolungati. Come se il cervello andasse in sovraccarico da meraviglia e non potesse contenere tutto ciò che vede senza rimanerne folgorato nel profondo. Più colpite sembrano essere persone particolarmente sensibili e in luoghi ricchi di stimoli artistici, come Firenze appunto.

Sensazioni estatiche, definite però anche patologiche, non a caso la Sindrome di Stendhal ha anche un altro nome: malattia da iperculturemia.

Dalla sua definizione, nel 1977, si è discusso molto in psicologia, e sono molti gli studiosi che affermano che in realtà non esista o che possa essere assimilata ad altre sindromi più generiche e ampie, come quella del viaggiatore.

La Magherini ha anche cercato di capire se alcune opere più di altre fossero responsabili dello scatenarsi della sintomatologia. Michelangelo è risultato essere l’artista che più di altri ha contribuito a scuotere gli animi e nello specifico il suo David. “Il David presenta delle caratteristiche eccezionali: in primo luogo possiede una bellezza anatomica straordinaria e poi, contemporaneamente, è un eroe biblico e, per la città, un eroe civico. Soprattutto, ciò che colpisce chiunque, è il lato estetico: è un bellissimo nudo e ciò riesce a influenzare l’animo di alcune persone rendendole in qualche modo eccitate, depresse e così via, influenzando perciò l’emotività dello spettatore, in un senso o in un altro”.

NEURONI SPECCHIO, CERVELLO E STENDHAL: COSA LI UNISCE?

Grazie alla scoperta dei neuroni-specchio, negli anni ’90 (ne abbiamo parlato in un precedente articolo: EMPATIA: L’ANTIDOTO A PREGIUDIZI, CONFLITTI E DISEGUAGLIANZA) , è più facile ora capire cosa succede nel cervello quando ci si trova di fronte un’opera d’arte. Nelle persone particolarmente sensibili sembra arrivino troppi impulsi visivi nello stesso momento, e che questi producano così un’intensa eccitazione, che si tramuta nei sintomi che abbiamo descritto.

Secondo il neurologo Semir Zeki, siamo dotati di un cervello visivo con cui possiamo cercare di spiegare e capire la creazione artistica. Allo stesso modo siamo dotati di un cervello artistico, prolungamento di quello visivo. Il nostro cervello non è un semplice spettatore passivo che si limita a registrare la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che vediamo di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte.

La risposta del cervello di fronte all’arte potrebbe non solo fornire spiegazioni maggiori sulla Sindrome di Stendhal, ma anche capire meglio il funzionamento del cervello, le cui logiche non sono ancora del tutto conosciute.

L’APPROCCIO PSICOANALITICO

Secondo l’approccio psicoanalitico chi soffre della Sindrome di Stendhal non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.

Un concetto, questo del viaggio sentimentale, già proposto da Laurence Sterne (1713-1768), precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo sentimental una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

COSA FARE SE VENIAMO CATTURATI DA STENDHAL…

Quando il problema persiste nel tempo, è consigliabile andare da un medico specializzato. Nella maggior parte delle volte, a quasi tutti è capitato di rimanere assolutamente affascinati dalla bellezza, fosse per un oggetto d’arte o un’aria musicale. Probabilmente chi arriva al punto di svenire e di provare malessere davanti alla bellezza in sé conserva una sensibilità estremamente accentuata che può risultare difficile da gestire.

Ma è pur vero che la maggior parte di coloro che intraprendono un viaggio in solitudine, in luoghi fortemente suggestivi e capaci di indurre forti reazioni emozionali, possono inciampare in alcuni sintomi propri della sindrome, pur senza conseguenze preoccupanti.

Anche lo scrittore russo Fëdor Michailovic Dostoevskij inciampò in questa sindrome, durante la visione del quadro di Holbein, un volto tumefatto, pieno di ferite sanguinolente. Insomma sono molti coloro che hanno conosciuto la sindrome.

Perdersi nella bellezza, posso sostenere da profano, che sia alla fine una fortuna. Non tutti sanno cogliere l’estetica e il vissuto di un’opera d’arte e se succede, senza lasciare strascichi ovviamente, non può che essere una esperienza arricchente. L’apertura di una porta sulla magnificenza che talvolta dimentichiamo che è solo lì ad aspettarci.