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IL TUO CERVELLO PRODUCE ABBASTANZA GABA?

Ti capita di sentirti triste, eccitato o irritato senza una ragione apparente e in modo ricorrente? Probabilmente è colpa del GABA, una fra le molecole naturali più importanti che ci abitano, conosciuta anche come il neurotrasmettitore della calma e del rilassamento, perché capace di rallentare l’attività cerebrale.

GABA è l’abbreviazione di una molecola: l’acido gamma amminobutirrico, un neurotrasmettitore (ossia una sostanza chimica che le cellule cerebrali usano per comunicare fra loro) che regola l’eccitabilità cerebrale mediante l’inibizione del rilascio di neuroni. Questo meccanismo genera una sensazione di calma e riduce stress, ansia e alcune malattie.

Il GABA è, di fatto, il neurotrasmettitore inibitore più usato. I neurotrasmettitori inibitori diminuiscono le probabilità che un impulso nervoso si presenti con troppa forza. È inoltre coinvolto in aspetti quali: vista, sonno, tono muscolare e controllo motorio e si trova oltre che nel cervello, nell’intestino, stomaco, vescica, polmoni, fegato, pelle, milza, muscoli, reni, pancreas e organi riproduttivi.

A COSA SERVONO I NEUROTRASMETTITORI

Per capire come funziona il GABA nel cervello, dobbiamo guardare il meccanismo di azione e gli effetti di un neurotrasmettitore. Per definizione è un messaggero tra i neuroni. Tuttavia, il tipo di messaggio trasmesso può variare da un neurotrasmettitore all’altro. Ne esistono di due tipi: neurotrasmettitori eccitanti e neurotrasmettitori inibitori. Il GABA appartiene a quest’ultima categoria. In altre parole, ha un potenziale inibitore. Lo fa legandosi a recettori specifici, detti recettori GABA o recettori GABAergici.

PENSIERI INDESIDERATI, ANSIA E STRESS

Il GABA è presente ad alte dosi all’interno dell’ippocampo – l’area del cervello che controlla la memoria – e permette di sopprimere i pensieri indesiderati. Difetti nella sintesi o nel rilascio di questo neurotrasmettitore, spiegano i pensieri intrusivi che caratterizzano il disturbo da stress post-traumatico, l’ansia, la depressione e la schizofrenia. Ecco perché è così importante per il nostro equilibrio mentale.

Il meccanismo sottostante all’incapacità di scacciare i pensieri intrusivi e sgraditi è stato individuato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, e i cui risultati sono illustrati in un articolo pubblicato su “Nature Communications”.

Studi precedenti avevano mostrato che la difficoltà ad arginare i pensieri indesiderati è connessa a una ridotta attività nella corteccia prefrontale, già nota per avere un ruolo primario nel controllo delle azioni: “Noi possiamo avere reazioni veloci, che sono spesso utili, ma a volte abbiamo bisogno di controllarle e impedire che si verifichino. Un meccanismo simile ci deve aiutare a evitare che si presentino pensieri indesiderati“, spiega Michael C. Anderson, coautore dello studio. Ma la corteccia prefrontale è solo un tassello del problema: in tutti i disturbi caratterizzati da pensieri intrusivi si osserva infatti anche un’iperattività dell’ippocampo, l’area cerebrale responsabile del controllo della memoria.

Nel recente studio Anderson ha sottoposto un gruppo di pazienti con pensieri intrusivi e un gruppo di controllo a un test che richiedeva di rifuggire da alcune idee per concentrarsi su altre, mentre i soggetti venivano sottoposti sia a risonanza magnetica funzionale (fMRI), sia a spettroscopia di risonanza magnetica (spettroscopia NMR). Mentre la fMRI permette di identificare i livelli di attività delle diverse aree cerebrali, la spettroscopia NMR permette di risalire al tipo di molecole coinvolte in questa attività.

Dal confronto dei dati raccolti è emerso che la capacità di inibire pensieri indesiderati si basa su un neurotrasmettitore – una sostanza chimica all’interno del cervello che permette la trasmissione di messaggi da un neurone all’altro – chiamato appunto GABA (acido gamma-amminobutirrico).

Il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio: il suo rilascio da parte di un neurone sopprime l’attività nelle altre cellule a cui è connesso. In particolare, è risultato che basse concentrazioni di GABA all’interno dell’ippocampo rendono difficile bloccare il recupero di ricordi e pensieri. In prospettiva, la scoperta potrebbe offrire un nuovo approccio per arginare i pensieri intrusivi in varie patologie, sviluppando farmaci in grado di migliorare selettivamente l’attività GABA all’interno dell’ippocampo.

SCARSI LIVELLI DI GABA

Nella maggior parte dei casi una disfunzione dei livelli di GABA può essere attribuita direttamente allo stile di vita, come sostiene il dottor Datis Kharrazian, ricercatore alla Harvard Medical School: “troppo stress, una cattiva alimentazione, la mancanza di sonno, troppa caffeina e l’intolleranza al glutine, sono cause di un’alterazione dei livelli di GABA”.

Anche i batteri intestinali producono questo neurotrasmettitore, motivo per cui la disbiosi, uno squilibrio fra i batteri intestinali buoni e cattivi, può provocare una produzione ridotta di GABA.

L’eccesso di acido glutammico poi, diventa GABA con l’aiuto della vitamina B6 e dell’enzima acido glutammico decarbossilasi. Ma una carenza di vitamina B6 o una reazione autoimmune possono interferire con la produzione del GABA. Sono molti i cambiamenti chimici che possono influire sull’equilibrio acido glutammico-GABA. Per quanto riguarda le sostanze di consumo: la caffeina inibisce l’attività del GABA, mentre l’alcol e i calmanti la aumentano.

COME AUMENTARE NATURALMENTE I LIVELLI DI GABA

Esistono degli integratori di GABA che contengono una versione sintetica di questo neurotrasmettitore. Tuttavia, vi sono delle controversie in merito alla loro efficacia.

Vi sono molti altri modi per mantenere sani livelli di GABA. Uno di questi è l’alimentazione. I ricercatori hanno analizzato i contenuti di GABA in un’ampia varietà di alimenti, come germe di riso integrale, germogli di riso integrale, germogli d’orzo, germogli di soia, fagiolini, mais, orzo, riso integrale, spinaci, patate, patate dolci, cavolo e castagne.

Una ricerca condotta dall’Istituto di Bioscienze dell’Università di Cork, in Irlanda, ha rivelato che gli alimenti probiotici aumentano l’acido γ-amminobutirrico. Alimenti come lo yogurt, il chefir, il kimchi e i crauti contengono i ceppi batterici produttori di GABA: Lactobacillus brevis e Bifidobacterium dentium.

Se sei preoccupano per i tuoi livelli di GABA, i medici consigliano di ridurre al minimo l’ingestione di caffeina, dato che inibisce la capacità di questo neurotrasmettitore di legarsi ai suoi recettori. Puoi bere del tè, che contiene meno caffeina, ma possiede l’amminoacido l-teanina, che aumenta questo neurotrasmettitore.

Un altro modo molto efficace per aumentare i livelli di GABA è fare attività fisica. Qualsiasi tipo di attività fisica aumenta i livelli di questo neurotrasmettitore, ma lo yoga è la più indicata. I livelli di GABA nel cervello possono aumentare fino a un 27% dopo una sola sessione di yoga.  Inoltre il GABA può, in qualità di neurotrasmettitore inibitore, agire come miorilassante naturale. Ciò significa che può prendere parte al rilassamento muscolare, con un interesse non trascurabile per quanto riguarda la fase di recupero dopo l’attività.

Oltre ai benefici in caso di stress e ansia, il GABA è noto anche per gli effetti sulla salute cardiovascolare. Gli studi dimostrano che questo neurotrasmettitore inibitore può ridurre la pressione arteriosa inibendo il rilascio di alcuni neurotrasmettitori eccitanti. Può dunque risultare interessante nel contrastare alcuni disturbi cardiovascolari come la pressione alta, fattore di rischio importante per l’incidente vascolare cerebrale o ictus.

In secondo luogo gli studi hanno dimostrato che questo neurotrasmettitore svolge un ruolo importante nella regolazione dell’appetito. La sua azione influisce sull’assunzione del cibo e può contribuire a contrastare l’aumento di peso, in particolare nell’ambito di una dieta.

I BENEFICI DEL GABA

Le scoperte scientifiche riassumono così i benefici di un livello equilibrato del neurotrasmettitore:

  • un’azione tranquillizzante e rilassante: favorisce in maniera naturale il rilassamento dell’organismo;
  • un’azione tranquillizzante e rilassante: aiuta naturalmente a combattere lo stress, l’ansia e i disturbi associati (stanchezza, problemi di insonnia, irritabilità, aggressività…);
  • un potenziale anti-insonnia: contribuisce a favorire l’addormentamento;
  • un effetto miorilassante: favorisce il rilassamento dei muscoli e partecipa attivamente al recupero dopo lo sforzo;
  • un potenziale antidepressivo: ha un’influenza positiva sugli stati emotivi;
  • un effetto ipotensore: può ridurre la pressione arteriosa e contribuire a stabilizzarla;
  • benefici per evitare di prendere peso: prende parte alla regolazione dell’assunzione di cibo;

A questo punto, sai cosa fare naturalmente se ti senti irritato, nervoso e particolarmente ansioso senza una vera ragione. Insomma, ora tocca a te!

PERCHE’ IL TEMPO SCORRE PER OGNUNO DI NOI A UNA VELOCITA’ DIVERSA?

Vuole la tradizione che sia di buon auspicio gettar via, l’ultimo dell’anno, qualcosa di vecchio per lasciar spazio al nuovo. Così come indossare biancheria intima rossa e baciarsi sotto il vischio… Delle tre, solitamente opto per la prima, salutando l’agenda dell’anno trascorso per sostituirla con quella dell’anno in arrivo. Inevitabilmente questo gesto mi porta a riflettere sul tempo, sui mesi che scorrono a una velocità che non ci è dato controllare e che sembra sempre diversa.

In vacanza o immersi nel flusso delle cose che ci piace fare, il tempo pare prendere il volo, ma poi quando ripercorriamo con la mente i ricordi di quei momenti, la durata di quelle giornate pare lunghissima, densa di emozioni. Gli scienziati hanno battezzato questo bizzarro fenomeno con il nome di “paradosso della vacanza”, per indicare la ragione per cui il tempo sembra molto più lungo quando è richiamato alla memoria, ma rapidissimo quando lo si vive.

Questa, ho scoperto non essere l’unica bizzarria legata alla percezione del tempo. L’età, il movimento e perfino la temperatura corporea possono influenzare la velocità con cui ci paiono scorrere minuti e ore. Inoltre, c’è un forte legame tra il nostro modo di misurare il tempo e quello di percepire lo spazio. La scienza, non a caso, è riuscita a dimostrare che l’esperienza del tempo è creata dalla mente. I fisici dicono che il tempo non trascorre, il tempo semplicemente è. Eppure, nessuno dubita che il tempo passi. Inevitabile che sia così, visto che il cervello misura il tempo. Ma, a volte, sbaglia.

IL CERVELLO MISURA IL TEMPO E A VOLTE SBAGLIA

A far sbagliare il nostro cervello sono in primis le emozioni. Quando sentiamo la nostra vita a rischio, se ci fate caso o se mai vi siete trovati in questa rovinosa situazione, il tempo pare rallentare e ogni secondo sembra durare un’eternità.

David Eagleman, neuroscienziato del Baylor college of medicine di Houston (Usa), ha dimostrato con uno spettacolare esperimento che quando si ha paura il cervello non pensa più velocemente. Eagleman ha chiesto a dei volontari di lasciarsi cadere da un traliccio alto 45 metri, avvolti da un’imbracatura che li avrebbe trattenuti prima di toccare terra. Il salto avveniva all’indietro in modo che il tuffo fosse più impressionante. Durante la caduta i volontari dovevano osservare un grosso cronometro che faceva scorrere i numeri in modo velocissimo. «I numeri si succedevano al ritmo di 20 volte al secondo, appena un po’ più rapidamente di ciò che l’uomo riesce a cogliere» ha spiegato Eagleman. «Ma nonostante le mie “vittime” dichiarassero tutte che la caduta era sembrata interminabile (quando fu loro chiesto di quantificarla la valutarono più lunga in media del 35%), nessuno riuscì a leggere le cifre sul display».

L’esperimento ha così dimostrato che la mente spaventata non lavora più in fretta dilatando il tempo: è solo il ricordo dell’evento ad apparirci più lungo.

A causare questa distorsione è la memoria. Se si mostra a dei volontari il video di 30 secondi di una rapina, a distanza di qualche giorno gli stessi volontari diranno che quel filmato è durato più di 2 minuti. Per dirla in modo semplice: un evento che ci colpisce genera più ricordi e per questo ripercorrendolo con la mente ci sembra più lungo.

TEMPO E PIACERE

Ma non finisce qui. Ad alterare la nostra percezione del tempo è anche la sensazione di non piacere agli altri, come dimostrato dalla psicologa statunitense Jean Twenge.

Twenge, che insegna all’Università di San Diego, ha chiamato alcuni volontari a svolgere un test per una ricerca. L’esperimento, efficace e sottilmente diabolico secondo me, richiedeva che una volta radunato un gruppetto di persone, venisse chiesto loro di fare conoscenza, raccontando episodi simpatici. Successivamente i volontari sono stati informati che, poiché il lavoro si sarebbe svolto a coppie, avrebbero dovuto segnare su un foglio i nomi di 2 persone con le quali sarebbe loro piaciuto lavorare.

I volontari sono stati poi chiamati uno a uno. A metà di loro è stato raccontato che erano stati scelti da tutti e che non si era riusciti a formare delle coppie; a metà degli altri è stato detto che nessuno li aveva scelti, che questo non era mai successo e quindi era meglio che lavorassero da soli. Poi a tutti è stato chiesto di compilare individualmente un questionario.

Il risultato: le persone a cui era stato riferito che piacevano a tutti quantificarono la durata del test in 42,5 secondi (in media); chi era stato rifiutato in 63,6 secondi, quasi un terzo del tempo in più.

Le emozioni hanno una grande influenza sulla percezione temporale. In un altro studio ad alcuni volontari sono state mostrate immagini di volti che esprimevano stati d’animo differenti ed è poi stato chiesto loro di stimare quanto tempo le immagini erano rimaste sullo schermo. Si è visto che rabbia e paura inducono a sovrastimare il tempo, mentre felicità e vergogna a sottostimarlo.

Leggendo qua e là, ho poi scoperto che anche la febbre può condizionare la percezione del tempo, riducendolo. Nel secolo scorso, lo psicologo Hudson Hoagland chiese alla moglie influenzata quando secondo lei fosse passato un minuto, e si accorse così che più si alzava la temperatura corporea, più la donna sottostimava il trascorrere del tempo (oltre i 39 °C, un minuto per lei durava appena 34 secondi).

GLI OROLOGI CHE ABBIAMO NELLA TESTA

«La stima del tempo dipende in gran parte dalle strutture sensoriali del cervello e perfino da quelle motorie» spiega Thierry Pozzo, neuroscienziato dell’Università di Digione. Del resto, tempo e spazio sono legati: se si benda una persona e le si chiede di rievocare una giornata di 4 anni fa il corpo si inclina leggermente indietro, se le si chiede di immaginare una giornata tra 4 anni il corpo si sposta leggermente in avanti.

Tempo e spazio sono così intimamente connessi che spesso il cervello li mescola. Esistono persone capaci di vedere il tempo dispiegarsi nello spazio. Lo vedono in forma tridimensionale: come una fascia che avvolge il corpo e poi si dipana. L’anno è di solito visualizzato come un anello che gira in senso antiorario. Le settimane hanno i modi di visualizzazione più vari: ferri di cavallo, semicerchi, curve, tessere del domino allineate.

Esiste una sola comunità umana, quella degli Amondawa dell’Amazzonia, che non conosce la parola tempo: nella loro cultura non esiste nulla di simile ai mesi o agli anni, non hanno né orologi né un calendario condiviso.

Il cervello, in realtà è in grado di stimare il tempo con una certa accuratezza. Ma finora non è stato trovato un vero “orologio” mentale; o meglio: forse ce n’è più di uno. È stato infatti scoperto che diverse aree cerebrali sono implicate nella percezione del tempo.
Fondamentale è il cervelletto, un’area che si trova nella zona della nuca e costituisce il 10% in volume del cervello ma ne contiene metà delle cellule. Serve per coordinare il movimento elaborando i dati provenienti dal resto del sistema nervoso. È il cervelletto che ci permette di non schiacciarci le dita nella portiere quando saliamo in macchina perché valuta quante frazioni di secondo lo sportello impiegherà a chiudersi.

Un’altra area che misura il tempo si trova nel lobo frontale destro, che ha anche un ruolo importante nella memoria a breve termine. In questa zona si valutano durate dell’ordine di secondi.

Ma quando bisogna andare oltre, su tempi di molti minuti, ore o giorni entra in gioco un’altra zona cerebrale, i gangli basali: 2 gruppi di neuroni che attraverso la dopamina controllano i muscoli, ma sono anche fondamentali nella valutazione della durata di un evento. Quindi, quando calcoliamo il tempo, usiamo una combinazione delle 3 zone cerebrali e del sistema dopaminico.

«Queste aree sono tutte implicate nella misurazione degli spazi temporali» dice Giacomo Koch, neurologo alla fondazione S. Lucia di Roma «ma sul modo in cui la nostra mente riesce a percepire il tempo ci sono diverse teorie: se sia implicata di più la memoria, l’attenzione, una serie di orologi cerebrali o se sia l’attività cerebrale quotidiana a darci la scansione del tempo è ancora oggetto di discussione».

A pensarla in modo differente è la neuroscienziata francese Virginie van Wassenhove. Secondo lei non esistono orologi mentali: ogni zona del cervello ha la capacità di calcolare il tempo. Ma lo fa solo quando glielo chiediamo. A darci l’idea che il tempo passi sarebbero le onde alfa le cui oscillazioni durano 30 millisecondi e che quindi riprodurrebbero nel nostro cervello una sorta di incessante tic tac.

Perso in tutte queste riflessioni e letture, intanto, non mi sono accorto che sono trascorse tre ore. Insomma, il tempo vola quando ti diverti… forse non è scientifico ma è pur sempre la mia percezione.

E SE L’AMORE FOSSE UNA QUESTIONE DI NEURONI? LA BIOLOGIA SVELA I SEGRETI DEL CUORE

Quanti film e libri abbiamo guardato e letto, sperando di vivere anche noi l’amore perfetto. Fatto di passioni, pulsioni, desideri, follia e anche un po’ di dolore. Eppure l’innamoramento è ben diverso da come ce lo hanno sempre raccontato e come abbiamo sempre voluto che fosse. E’, più semplicemente, un mix di neuroni, ormoni e amore.

Forse è anche per questa ragione che la biologia non è così allettante: spoglia le storie dalle illusioni e cerca di spiegare con le metriche, anche ciò che vorremmo invece lasciare mistero. Eppure ci aiuta a portare consapevolezza su ciò che accade dentro di noi.

NEURONI, ORMONI E AMORE

Tre ingredienti, neuroni, ormoni e amore che vanno a braccetto. Non a caso l’amore nasce, cresce e muore nei neuroni, le cellule del cervello. E se gli ormoni rappresentano ciò che avviene a livello fisiologico, l’amore è ciò che accade nella mente. Processi entrambi che avvengono nel cervello.

L’amore e l’innamoramento sono due aspetti basilari della nostra esistenza, senza i quali non avremmo forse nemmeno la percezione di miglioramento, cambiamento personale e soprattutto di soddisfazione ed esaltazione che l’essere innamorati regala.

I MODI DELL’AMORE

Gli studi di neurofisiologia, che hanno indagato il processo dell’innamoramento e il suo passaggio all’amore, ci dimostrano però che possiamo essere innamorati in due modi: sottocorticale, di basso livello e istintualità, e corticale superiore, di alto livello.

Ognuno di noi ha sperimentato che nella fase iniziale dell’innamoramento la persona verso la quale nutriamo questo sentimento viene concepita come un possesso, qualcosa che ci appartiene personalmente, senza la quale ci sembra di non poter vivere. Questo tipo di innamoramento è quello istintuale, basato sull’idea di occupare lo spazio e il territorio del nostro partner per introdurlo all’interno della nostra gelosia.

Fortunatamente, però, è possibile passare all’amore, abbandonare questo innamoramento animale, instaurando un nuovo tipo di attaccamento. Un attaccamento che i neurofisiologi definiscono di tipo corticale superiore: in cui diventa preponderante l’azione della corteccia prefrontale in rapporto con il sistema limbico, che organizza le nostre emozioni. La corteccia prefrontale è quella parte del cervello connessa con tutte le altre parti della corteccia.

Uno dei ruoli fondamentali della corteccia prefrontale è stimolare la concentrazione su se stessi, favorendo così l’eliminazione di tutte quelle emozioni negative, come l’invidia, la gelosia, il possesso, l’aggressività.

Ormoni e amore si ricongiungono dando come risultato questa sensazione di non poter vivere senza l’altro, come quando si è più piccoli e non si può fare a meno dei genitori e degli adulti in generale. Gli ormoni coinvolti nell’attaccamento sono l’ossitocina e la vasopressina.

L’ossitocina viene secreta durante l’allattamento e l’orgasmo. La vasopressina dopo un rapporto sessuale, generando una sensazione di attaccamento all’altro. E’ per questo che si dice che quanto più sia sessualmente attiva una coppia, più forte sarà il vincolo. Ormoni e amore costituiscono le fondamenta di una relazione duratura.

BIOLOGIA E SCELTA DEL PARTNER

In questo ambito, la scienza si divide, non a caso i motivi che incidono sulla scelta sono controversi. Mentre alcune correnti sostengono che questa sia direttamente associata a fattori inconsapevoli; altri che è uno dei classici esempi della combinazione fra ormoni e amore.

Per chi ritiene che la scelta del partner sia determinata dalla combinazione fra ormoni e amore, l’elemento determinante in questa scelta sono i geni. Ognuno di noi sceglie colui o colei che ha il patrimonio genetico migliore. E’ una scelta istintiva, proprio perché non abbiamo a disposizione una mappa genetica quando decidiamo di stare insieme a una persona..

L’attrazione, o meno, viene percepita in un lasso di tempo che va dai 3 ai 4 minuti. Su questo non influisce né l’oratoria, né i vestiti di marca, né la macchina. I feromoni sono l’elemento determinante. Coscientemente sono impercettibili, eppure i nostri primordiali meccanismi di percezione ne sono sensibili. Ci parlano di sesso e fecondità, e incidono sull’attrazione e sull’innamoramento.

Le neuroscienze ci rivelano anche che durante la fase dell’innamoramento ormoni e amore subiscono uno stato di esaltazione molto elevato: vi è una maggiore produzione di monoammine nel cervello. In particolare di norepinefrina, dopamina e serotonina. Ciascuna di esse genera diverse reazioni e induce a determinati comportamenti.

NOREPINEFRINA

Fa sentire le farfalle nello stomaco. Si tratta di un’emozione forte, nella quale si mescolano gioia e nervosismo. Una sensazione simile a quando ci lanciamo con il paracadute.

DOPAMINA

Genera una sensazione di benessere e potere. È l’ormone responsabile dell’inizio dello sviluppo dell’attaccamento. E da esso dipende anche che l’amore sfoci in dipendenza.

SEROTONINA

Ci fa sentire entusiasti ed esultanti. Pazzi di gioia. Genera sensazioni molto piacevoli.

Ormoni e amore vanno sempre di pari passo. Questo non significa, però, che tutto possa essere spiegato in termini fisiologici.

PERCHE’ SOFFRIAMO PER AMORE?

Se l’innamoramento è una questione chimica, perché dunque soffriamo quando veniamo lasciati?

L’antropologa Helen Fisher ha studiato il cervello degli innamorati, utilizzando la risonanza magnetica funzionale. E ha scoperto che l’amore romantico è una dipendenza. Perfetta, meravigliosa, quando è reciproca. Quando va male, diciamo: ho preso una scottatura. Ed è realmente così. Nella mente si attiva la stessa area che reagisce a un dolore fisico, tipo una scottatura.

Quando invece qualcuno ci spezza il cuore, il cuore va incontro a spasmo acuto. Per lo psicologo Angelo Compare, il cuore infranto è una verità scientifica. I sintomi sono come quelli dell’infarto del miocardio. Il dolore al centro del petto è forte, dura a lungo, vengono anche sudori freddi, nausea e vomito.

Eppure innamorarsi rimane sempre una gran bella cosa. Chi non ha adorato quello

stato di alterazione della mente che corrisponde al far follie: non senti il dolore, accetti sfide impossibili, perdi lucidità. Dura al massimo da otto mesi a tre anni L’amore comincia con la sensazione di essere capiti e sostenuti. La persona che ami raggiunge le nostre parti più desolate. Troviamo divertenti le sue battute, odiamo le stesse persone, vogliamo dormire abbracciati, invecchiare insieme. E non è possibile. Nessuno capisce del tutto nessuno. Non a caso c’è chi sostiene che scegliere qualcuno da amare è solo una questione di decidere quale tipo di sofferenza siamo disposti a sopportare.

Le neuroscienze e la biologia ci aiutano a fare chiarezza ma è pur vero che possiamo conoscere tutti gli ingredienti di una torta alla crema, però mangiarla resta sempre un’esperienza meravigliosa.

VIAGGIO NEL CERVELLO FRA MITI, ILLUSIONI E IL DESIDERIO DI DIVENTARE IMMORTALI

Qualche notte fa, incapace di prendere sonno, facendo zapping da un canale all’altro, sono incappato in un film culto Frankenstein Junior di Mel Brooks, in cui il giovane medico Frederick Frankenstein scopre un fluido magnetico per mezzo del quale, innestando un nuovo cervello in un uomo morto, lo riporta in vita.

Dibattito infinito quello sul trapianto di cervello, oggi molto meno chimera grazie agli sviluppi e le scoperte in ambito medico, della genetica e delle neuroscienze, ma ancora di difficile realizzazione. Almeno su un paziente vivo.

Goloso di saperne di più, ho trascorso parte delle successive notti a cercare indizi per capire se il trapianto di testa, è una speculazione o il prossimo futuro. E ho scoperto che tenere in vita le cellule del cervello è tutt’altro che semplice.

In un articolo pubblicato sul sito di Medicina tedesco Ärzte Zeitung (poi rimosso, ma di cui rimane una copia cache), si legge che un team di ricercatori dell’Università di Yale diretto da Nenad Sestan sarebbe riuscito a ripristinare parzialmente le funzioni cerebrali di 32 cervelli di maiale, collegati al sistema BrainEx, in grado di fornire la giusta circolazione sanguigna e temperatura corporea agli organi.

«Dopo sei ore di perfusione, i ricercatori hanno osservato una riduzione delle cellule morte e hanno trovato evidenza di alcune funzioni cellulari, come l’attività della sinapsi. Tuttavia, non c’erano segni di funzioni cerebrali come la coscienza e la percezione».

Scopro altresì che quello di Sestan non è il primo studio sull’argomento e scartabellando qui e là, ho dovuto mettere molto impegno nel tenere a freno la fantasia e rimanere sul concreto.

Infatti pur sapendo che il lavoro di Sestan aveva risuscitato alcunchè e nemmeno ripristinato coscienza e percezione, mi piaceva credere di poter trovare di lì a poco, qualche altro studio che dicesse il contrario. Alla fine mi sono dovuto accontentare del fatto che questi esperimenti sono utili nel trattare danni cerebrali e capire qualcosa di più di un organo altamente complesso.

Niente, fra ciò che leggevo, dava risposta alla domanda più importante: è possibile ripristinare completamente la funzione cerebrale?

Ricerche del 2018 pubblicate sulla rivista del MIT, hanno dimostrato che il cervello potrebbe sopravvivere anche 36 ore dopo la separazione dal corpo. La ricerca riguardava anche allora dei cervelli di maiale sottoposti nuovamente a flusso sanguigno, i risultati vennero presentati al National Institutes of Health negli Stati Uniti nel marzo 2018.

Il neuroscienziato della Yale University ha rivelato che una squadra da lui guidata aveva sperimentato tra 100 e 200 cervelli di maiale ottenuti da un macello, ripristinando la circolazione usando un sistema di pompe, riscaldatori e sacchi di sangue artificiale riscaldati a temperatura corporea.

IL TRAPIANTO DI CERVELLO E’ TUTT’ALTRA COSA

Anche in quel caso non vi era alcuna evidenza di un ripristino di coscienza nei cervelli, mentre è stato riscontrato un prolungamento della vita di una parte delle cellule cerebrali. La tecnica ricorda quella utilizzata per conservare gli organi destinati al trapianto; a parte questo non può però essere riscontrata una tecnica in grado di riportare in vita le persone, magari dopo una decapitazione, tanto meno eseguire dei «trapianti di testa», possibili solo ed esclusivamente col decesso del paziente.

Il più recente articolo firmato da Sestan pubblicato su Current Opinion in Neurobiology «Shared and derived features of cellular diversity in the human cerebral cortex» , riguarda l’organizzazione dei neuroni nella corteccia cerebrale umana, quella dove è possibile trovare anche le funzioni che ci rendono coscienti.

Oltre Sestan un altro neuroscienziato ha portato l’attenzione su di sé, proclamando nel 2017, durante una conferenza stampa a Vienna, un’operazione che sarebbe stata effettuata in Cina su due cadaveri, dove la testa di uno e il corpo di un altro, sarebbero stati “assemblati” connettendo colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento lungo 18 ore.

A ben vedere un intervento su due cadaveri non è un trapianto. Almeno non dal punto di vista tecnico. E dunque non è corretto parlare di trapianto di testa.

Il neurochirurgo in questione è il torinese Sergio Canavero, della Harbin Medical University, in Cina.

UN TRAPIANTO SU UN MORTO CHE UTILITA’ HA?

Così mi sono chiesto: se i pazienti arrivano sul tavolo operatorio già morti, che senso ha un trapianto?

A fornirmi la risposta è Dean Burnett, neuroscienziato e giornalista, sul Guardian, «forse la procedura adottata è stata una buona dimostrazione di come “attaccare” nervi e vasi sanguigni su larga scala, ma con ciò? È solo l’inizio di ciò che serve perché un corpo funzioni. Puoi assemblare due metà di auto diverse e definirlo un successo, se vuoi, ma nel momento in cui giri la chiave e il tutto esplode, la maggior parte delle persone avrebbe qualche difficoltà a sostenere che è stata una brillante idea».

PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE TRAPIANTARE UNA TESTA?

Dal punto di vista medico, il trapianto totale di corpo presenta almeno tre grandi, invalicabili criticità: le migliaia di nervi contenuti nei due monconi del midollo spinale, la temperatura del cervello e il problema del rigetto.

Se alcuni organi, come il cuore, sono relativamente facili da trapiantare (perché basta connettere un numero limitato di vasi), altri sono praticamente impossibili da trasferire da un corpo a un altro. Uno di questi è il midollo spinale: perché possa tornare funzionante ci sono milioni di connessioni neurali che andrebbero ripristinate, e finora non è mai stato possibile un trapianto simile.

Sarebbe un’impresa monumentale: nel 2017 è stata trapiantata con estrema pazienza e difficoltà,  una mano. Altri successi in fatto di trapianti, come quello di volto, di pene, di utero, hanno richiesto decenni di tentativi e sono già considerati rivoluzionari.

Canavero dice di aver già eseguito con successo un trapianto di testa su ratti e scimmie, ma anche queste affermazioni sono discutibili: il primate non si è mai risvegliato dall’operazione, ed è stato lasciato attaccato alle macchine che lo tenevano in vita per 20 ore “per ragioni etiche“.

Un altro non trascurabile dettaglio che rende difficile trapiantare una testa, riguarda il fatto che il cervello inizia a degradarsi e morire dopo pochissimi minuti senza ossigenazione, riportando danni permanenti. Anche raffreddandolo il più possibile, lo si potrebbe tenere in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricucire con pazienza le milioni di connessioni neurali? Probabilmente no, e ogni danno cerebrale annullerebbe l’utilità di un trapianto totale di corpo (almeno prima il cervello funzionava).

Infine, quale sarebbe l’impatto psicologico sul paziente? A differenza dei trapianti di organi interni, quelli di parti visibili come il volto, le mani o il pene presentano altissime probabilità di rifiuto psicologico da parte del paziente, che pure ne sentiva la necessità.

Il successo del primo trapianto di pene è stato in parte offuscato dalle richieste del paziente di rimuovere i nuovi genitali, che sentiva di non riconoscere. Avviene spesso anche con le mani – con i pazienti che si trovano a preferire protesi visibilmente finte ad appendici appartenute a qualcun altro. La sensazione di avere addosso un intero corpo (morto) di uno sconosciuto potrebbe avere effetti devastanti sulla psiche. Che dire poi dei farmaci antirigetto presi per evitare che un corpo appena arrivato rigetti il “vecchio” cervello? Chi sarebbe a quel punto il legittimo proprietario?

Domande legittime che mi riportano a un altro film di qualche anno fa, non meno ricco di irrisolti, da lasciarmi anche allora insonne.

BOGOWIE: L’OPERAZIONE E’ RIUSCITA

Bogowie narra di Religa: il primo medico a effettuare un trapianto di cuore in Polonia nel 1985. Un’operazione, avvenuta diciotto anni dopo quella del pioniere sudafricano Christian Barnaard ma che resta rivoluzionaria visto il luogo, il contesto storico e le precarie condizioni in cui venne effettuata.

Erano in molti, colleghi compresi, a osteggiare il cardiochirurgo, accusato di mettere a repentaglio la vita dei propri pazienti per mettersi in mostra. Dall’altro, milioni di polacchi erano diffidenti nei confronti di un trapianto cardiaco per motivi morali e religiosi visto l’altissimo valore simbolico del cuore visto come sede di anima e sentimenti per molti fedeli cattolici. ‘Mentre invece sappiamo benissimo che si tratta di un muscolo‘ ribadisce Zbigniew Religa.

Bogowie, non a caso, significa ‘Dei’ ed è proprio di questo che Religa e i suoi colleghi chirurghi della clinica di Zabrze, in Slesia, sono stati accusati. Medici che, lungi dall’arrogarsi il diritto di sostituirsi a Dio, ritengono invece di avere il dovere morale e professionale di tentare di salvare uomini e donne.

Pazienti spesso ritenuti casi disperati e, come tali, a loro volta consapevoli di giocarsi il tutto per tutto pronti percio’ ad affidarsi alle mani e ai ferri dei giovani e coraggiosi chirurghi polacchi.

Al pari delle persone che decidono di sottoporsi a trapianto cardiaco nella sua clinica, Religa ha molto da perdere in caso di insuccesso: la vita privata ma anche i preziosi finanziamenti che gli consentono di tenere aperta la clinica, oltre al prestigio professionale. Ma soprattutto Religa rischia di compromettere irrimediabilmente la fiducia in se stesso e nella propria capacità di salvare il prossimo. Non a caso ogni operazione fallita, ogni crisi di rigetto post-operatorio, ogni paziente scomparso lo portano a scivolare nell’alcool e nell’isolamento.

Chissà – rifletto mentre le ultime scene del film sfumano -, forse qualcuno vuole davvero sostituirsi a Dio, ma credo che i più vogliano solo salvare uomini e donne malati. Difficile stimare i confini fra dove finisce l’etica e dove inizia la brama personale. Un tempo era il cuore, oggi è il cervello.

Buona riflessione a tutti.

IL POTERE PERSUASIVO DEL NEUROMARKETING… CHE TUTTI POSSIAMO APPLICARE

Ha poco meno di una ventina d’anni, eppure sempre più persone, in tutto il mondo, se ne avvalgono. Di cosa parliamo? Del Neuromarketing, la disciplina che fonde marketing tradizionale, neurologia, fisiologia, psicologia e scienze comportamentali (termine coniato dal ricercatore olandese Ale Smidts, nel 2002). Il fine? Indagare sempre più a fondo ciò che accade nel cervello delle persone in risposta ad alcuni stimoli sensoriali cognitivi e ambientali, decodificando i processi cerebrali alla base delle decisioni umane, in particolare quelle di acquisto.

In parole più semplici il Neuromarketing svela le tecniche di vendita e i fenomeni psicologici sottili che ci fanno prendere una decisione d’acquisto piuttosto che un’altra, traendo vantaggio dalla nostra inconsapevolezza. Questa scoperta ha rivoluzionato di fatto il modo di vedere l’essere umano ed è stato il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio a riassumere il tutto in una famosa frase: We are not thinking machines that feel, we are feeling machines that think.

Questa rivoluzione ha avuto un enorme impatto anche nel mondo della comunicazione e del marketing. Oggi, grazie a metodologie sempre più precise e meno invasive, è possibile per esempio, ricavare informazioni e misurare l’attenzione, il coinvolgimento emotivo, il carico cognitivo e seguire il percorso visivo e le fissazioni dello sguardo. Dati che sono di enorme aiuto a chi si occupa di marketing per capire sempre meglio la fruizione delle persone di elementi di comunicazione, di elementi costitutivi del prodotto (logo, packaging, sapore, profumo, forma e colori), fino a giungere ai comportamenti nei punti vendita, di fronte allo scaffale.

E’ persino possibile misurare l’efficacia di un prodotto e indagare quanto i valori di una marca siano effettivamente condivisi e quindi efficacemente comunicati dall’addetto alle vendite. In aiuto arriva, in questo caso, l’implicit association test (Iat), capace di misurare le associazioni mentali suscitate da una marca, non solo quelle di cui siamo razionalmente consci, ma anche quelle non consce.

TECNICHE DI APPLICAZIONE DEL NEUROMARKETING

Ecco alcune tecniche di Neuromarketing che tutti possono applicare nel quotidiano.

  1. Dammi una ragione

Un noto studio è quello della “fotocopiatrice Xerox,” di Ellen Langer, psicologa di Harvard dove una studentessa doveva cercare, con una scusa, di saltare la coda per utilizzare la fotocopiatrice.

Nel primo scenario la ragazza chiedeva a coloro che erano in coda: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice?” Nel 60% dei casi le persone le permettevano di saltare la coda. Nel secondo scenario chiedeva: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè sono di fretta”. Il permesso a saltare la coda è salito al 94% dei casi, solo aggiungendo una scusa. Il terzo scenario è il più sorprendente: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè devo fare alcune copie”. La percentuale è stata del 93% anche se ciò che era stato fatto era aggiungere una spiegazione ridicola e ridondante.

Il nostro cervello ama le risposte, così come ama le parole crociate e i rompicapo. Una risposta fornisce la soddisfazione neurologica ed intellettuale alla nostra “fame” per una soluzione. Il discorso più coinvolgente non solo trasmette informazioni, ma fornisce anche soluzioni. I prodotti più efficaci non sono semplicemente indirizzati a problemi, li risolvono.

  1. Il mondo nelle tue mani

Allan Pease ha tenuto un interessante Ted Talk su come l’espressione gestuale delle mani possa modificare la percezione del pubblico.

Pease descrive un esperimento in cui uno speaker ripete lo stesso copione ad una platea, modificando solo la posizione e la gestualità delle mani: mostrando i palmi, nascondendoli o utilizzando le dita per indicare. Il discorso tenuto con i palmi in vista è stato ricordato dal 40% in più di pubblico e lo speaker è stato descritto come piacevole ed amichevole. I palmi nascosti sono stati descritti come autoritari, mentre l’utilizzo delle dita per indicare ha suscitato la risposta più negativa e la minore percentuale di ritenzione del discorso.

Pease spiega che il mostrare i palmi delle nostre mani è storicamente un segno di pace, che comunica il fatto che non abbiamo nulla da nascondere. Nascondere i palmi delle mani riflette inconsciamente un senso di protezione, dominio o potere. Un chiaro esempio è il saluto ad Hitler…immaginate se fosse stato fatto con il palmo della mano rivolto verso l’alto, avrebbe avuto lo stesso potere di persuasione?

  1. Il paradosso della scelta

Dal tipo di condimento al computer, dal modello di cellulare alla macchina, siamo continuamente inondati di opzioni fra le quali scegliere. Molte persone sono felici di avere ampi ventagli di scelte, ma se il vostro obiettivo è effettuare una vendita allora è meglio puntare sull’offrire un numero di scelte limitato.

Una ricerca ha mostrato infatti che solo il 3% dei clienti ai quali è stata presentata un’offerta di 24 differenti tipi di marmellata ha effettuato un acquisto, contro il 30% a cui erano state offerte solo 6 varietà. Un eccesso di opzioni produce una paralisi nel processo di scelta. Il processo mentale richiesto per valutare e prendere una decisione va in sovraccarico.

  1. Colore, profumo e suono

In molti supermercati il fiorista e la panetteria sono situati all’ingresso ed in vicinanza delle casse, questo insieme ad intere pareti di caramelle e patatine impilate in maniera impeccabile. Gli odori e i colori piacevoli portano ad un sovraccarico sensoriale che attiva un rilascio di endorfine ed uno stato di maggior piacere, risultante in un aumento degli acquisti.

I guardiani di un parco utilizzeranno dei colori chiari per scoraggiare il vagabondaggio. Le cameriere che indossano abiti rossi ricevono più mance. Gli ospedali utilizzano il bianco per ottenere un effetto calmante. I ristoranti utilizzano il giallo per migliorare l’umore dei clienti e stimolare la fame. Una musica con un ritmo più lento porta i clienti a muoversi più lentamente e ad acquistare di più. La musica classica è stata collegata con un incremento delle vendite nei ristoranti e nelle rivendite di vino. Una musica piacevole mentre state attendendo in linea durante una telefonata porta ad ottenere chiamate più lunghe.

  1. Il principio di scarsità

Pubblicizzate il vostro prodotto con il claim: “per un periodo di tempo limitato,” ed improvvisamente otterrete un picco nelle vendite. Le compagnie aeree utilizzano spesso frasi come “solo 3 posti rimasti” per portarvi ad effettuare l’acquisto. Quando le opzioni sono scarse ciò che è disponibile diventa molto più attraente.

Quando abbiamo bisogno di qualcosa siamo inclini a cadere in un “mondo rimpicciolito” e a prendere decisioni irrazionali.

  1. Tu. Sì, tu

I copywriters scelgono spesso intenzionalmente di utilizzare il tu. Per quanto l’obiettivo possa essere quello di raggiungere milioni di persone, il metodo è quello di dare l’impressione che si stia facendo riferimento alla singola persona.

Spostarsi dal riferimento generale a quello personale rompe letteralmente il fondamentale errore di attribuzione. Secondo il nostro orientamento cognitivo abbiamo due differenti lenti con le quali giudichiamo la realtà: una con la quale giudichiamo le altre persone, e un’altra per giudicare noi stessi. Potreste diventare furiosi se vedeste qualcuno che cerca di guidare e scrivere un messaggio al cellulare nello stesso tempo, ma trovereste miriadi di motivazioni per giustificare i vostri propri comportamenti.

Un messaggio rivolto ad un pubblico generale viene interpretato e letto utilizzando la lente del giudizio critico che siamo soliti applicare agli altri, mentre un messaggio personale viene istintivamente letto con la lente simpatetica che riserviamo a noi stessi. Far sentire qualcuno come se fosse la sola persona nella stanza non è solamente una dimostrazione di una buona intelligenza sociale, ma anche una via di comunicazione veramente efficace.

  1. L’effetto contrasto

Un’azienda ha costruito ed immesso sul mercato una macchina per fare il pane ad un costo di 275$ riuscendo a fatica a venderne un numero esiguo di pezzi. In seguito le vendite della macchina per il pane sono state raddoppiate. Questo risultato è stato ottenuto non riducendo il prezzo della prima macchina per il pane, ma affiancandola ad un’altra del tutto simile ma con un prezzo pari a 429$. Questo ha reso improvvisamente la prima macchina da 275$ un vero affare.

Un venditore intelligente vende il prodotto a prezzo maggiore fuori dalla massa degli altri prodotti. Una cravatta da 129€ non sembra poi tanto cara dopo aver speso più di mille euro per l’abito. Un primo prezzo che punti al cielo diventa un’ancora per la comparazione, e fa sembrare che qualsiasi altra cosa abbia un prezzo ragionevole.

Questo meccanismo funziona ben al di là del business. Il nostro cervello processa le informazioni relazionandole fra loro, ma questi confronti posso facilmente essere deformati e diventare svantaggiosi. A volte risulta più utile ed efficiente pensare in maniera isolata alle singole informazioni che dobbiamo processare.

Ora tocca a voi… Come avete visto applicare semplici regole di Neuromarketing è molto più semplice di quanto sembri!

SE SOLO RICORDASSI DOVE HO LASCIATO LE CHIAVI… MEMORIA AIUTAMI TU!

Se solo ricordassi dove ho messo le chiavi dell’auto… E il ritornello di quella canzone, quel tormentone estivo… l’ho cantato tutta l’estate, possibile che ora non riesco a farmelo tornare alla mente… Già la memoria, capace di farsi necessità proprio quando la perdiamo.

E proprio mentre ero concentrato a ricordare dove avessi lasciato gli occhiali, sì tra le altre cose, perdo anche gli occhiali, non ho potuto fare a meno di documentarmi. Chissà, mi sono detto, che la conoscenza non rafforzi anche la memoria.

VIS à VIS CON LA MEMORIA

I neuroni, per comunicare, si scambiano sostanze chimiche che li inducono a generare specifici impulsi elettrici. Immagina di ripetere questo processo miliardi di volte ed ecco che, pur se in maniera semplificata, avrai ottenuto il trasferimento di un’informazione (visiva, auditiva…) all’interno di un circuito neuronale del cervello umano.

Ma questo, ti starai domandando, che relazione ha con i processi di memorizzazione e ricordo?

Immagina di venir catturato da un profumo, una essenza che non conosci. Questa informazione immediatamente viaggerà dal naso, lungo il nervo olfattivo, fino alla parte del cervello organizzata per analizzare e comprendere i profumi. Nel fare ciò, l’informazione attraverserà un numero enorme di sinapsi creando l’equivalente di un “sentiero” neuronale. Al ripetersi dell’esperienza, l’informazione viaggerà nuovamente lungo lo stesso percorso rinforzandolo, proprio come il passaggio di molte persone in un prato crea un sentiero.

Questo processo è la base fisica del ricordo.

Lo stesso accade quando si cerca di memorizzare il numero del Bancomat o il numero di un cellulare: occorrerà ricomporlo più volte prima di fissarlo nella memoria. A meno che non si usino strategie di memorizzazione che legano il nuovo numero a percorsi già formati… sarebbe facile per esempio ricordare un numero come 191518 collegandolo al concetto “I guerra mondiale” (cominciata nel 1915 e finita nel 1918).

Questo spiega anche il perché è difficile ricordare una canzone o una poesia partendo dalla terza o quarta strofa e non dall’inizio. Poiché l’intera memorizzazione fa parte di un percorso: solo imboccandolo dall’inizio si riesce a ripercorrerlo senza difficoltà.

H. M.

Molto di ciò che sappiamo sulla memoria si deve a un paziente identificato con la sigla H. M., che a causa di una grave epilessia subì la rimozione di alcune parti del cervello. Migliorò, ma perse completamente la capacità di fissare nuovi ricordi perché le aree rimosse (una parte dei lobi temporali che comprendeva l’ippocampo) erano quelle coinvolte nella formazione della memoria. H.M. manteneva i ricordi di quando era piccolo, perché le regioni temporali sono necessarie alle memorizzazione, ma poi i ricordi sono immagazzinati in altre aree. In generale, la memoria dichiarativa (per esempio ricordare un numero) risiede nelle aree della corteccia, mentre quella procedurale (per esempio come si va in bicicletta) dipende da altre regioni, come i gangli della base.

DOVE FINISCONO I RICORDI?

La scienza ancora non ha risposto per intero al quesito. Sappiamo però che i ricordi non vengono immagazzinati nel cervello come fotografie, ma vengono scomposti nei loro costituenti (colore, sapore, movimento, profondità, intensità, suono ecc).

Il mistero è come facciano i frammenti dispersi nelle varie aree del cervello a ricomporsi, all’occorrenza, in qualche millesimo di secondo, facendo riemergere il ricordo completo.

COME ORGANIZZIAMO I RICORDI NELLA NOSTRA MENTE

Il cervello umano dispone di una sorta di “orologio” che tiene il tempo degli eventi che viviamo nel corso della giornata, ne registra l’orario e mantiene traccia dell’ordine con cui sono accaduti. È una rete di neuroni lo strumento che ci consente di disporre i nostri ricordi su una scala temporale ed è localizzata nell’emisfero destro, vicino all’area che regola la nostra esperienza dello spazio. A scoprirla un team di ricercatori norvegesi del Kavli Institute for Systems Neuroscience, diretto da Edvard Moser che nel 2014 ha vinto il Nobel per la medicina, insieme alla moglie May-Britt e a John O’Keefe, per la scoperta del ‘gps’ del cervello. La ricerca è reperibile anche sulla rivista Nature.

I nostri studi mostrano come la mente riesca ad assegnare un senso temporale a un evento nel momento in cui lo viviamo – spiega Albert Tsao, uno degli autori della ricerca. – Questa rete di neuroni non codifica il tempo in modo esplicito: quello che noi misuriamo è piuttosto un tempo soggettivo che deriva dal flusso continuo dell’esperienza“.

A ispirare la ricerca è stato proprio lo studio precedente condotto da Moser e premiato con il Nobel. Tsao si propose di scoprire ciò che accadeva nella misteriosa corteccia entorinale laterale, che è proprio accanto all’area in cui i Moser avevano scoperto la griglia di cellule con cui il nostro cervello costruisce la mappa dello spazio che ci circonda.

Sulle prime gli scienziati non riuscivano a raccapezzarsi. “Il segnale cambiava continuamente, non sembrava che l’attività di queste cellule seguisse uno schema“, ricorda Moser. Tre anni or sono hanno iniziato a sospettare che il segnale mutava sì di continuo, ma perché seguiva lo scorrere del tempo. “All’improvviso i dati che avevamo raccolto iniziavano ad avere senso“.

In laboratorio sono stati condotti due esperimenti per testare l’ipotesi che la rete di neuroni individuata servisse a riorganizzare temporalmente ricordi ed eventi. I ricercatori hanno monitorato l’attività cerebrale dei topi, impegnati in alcuni compiti, e hanno scoperto che con il segnale “del tempo” registrato potevano tracciare gli eventi che si erano succeduti nelle due ore di esperimento. “Lo studio mostra che cambiando l’attività in cui siamo impegnati – spiega Moser – cambiamo anche il corso del segnale-tempo e il modo in cui percepiamo il tempo“.

SE I RICORDI SONO BRUTTI?

Il neuroscienziato della Boston University Steve Ramirez e Briana Chen della Columbia University, hanno scoperto che nell’ippocampo – una piccola porzione cerebrale che immagazzina le informazioni sensoriali ed emotive di cui sono fatti i ricordi – si nasconde una sorta di’interruttore della memoria. Un interruttore flessibile, che cambia funzione a seconda di dove si trova.

Dopo avere identificato le cellule che partecipano alla costruzione dei ricordi, i test hanno dimostrato che, stimolando artificialmente le cellule della memoria situate nella parte superiore dell’ippocampo, il trauma collegato ai cattivi ricordi si attenua; al contrario, stimolando le cellule della parte inferiore la paura che si prova richiamando alla mente memorie negative aumenta, a indicare che quest’area potrebbe essere iperattiva quando un ricordo diventa talmente angosciante da scatenare una malattia. Almeno in teoria, dunque, spegnere questa iperattività potrebbe aiutare a trattare patologie come lo stress post traumatico o i disturbi d’ansia.

Il campo della manipolazione della memoria è ancora giovane“, spiega Ramirez. “Sembra fantascientifico ma questo lavoro è un’anteprima di ciò che verrà in termini di capacità di potenziare artificialmente i ricordi di una persona o di cancellarli“.

Attenzione però: l’esperimento è avvenuto sui topi, animali con un cervello molto diverso dal nostro. Quanto eseguito sulle cavie, dunque, è ancora “molto lontano dall’essere in grado di farlo negli esseri umani – puntualizza Chen – Ma la dimostrazione del concetto c’è” e, “come a Steve piace dire: mai dire mai, niente è impossibile“.

Mentre termino queste allettanti letture, ritrovo le chiavi in frigo e il contenitore del latte in lavanderia. La mia memoria ha grandi spazi di miglioramento!

Continua…

UN INSETTO SOTTO PELLE… LA SENSAZIONE CHE PROVA CHI E’ AFFETTO DALLA SINDROME DI EKBOM

Insetti e parassiti sotto pelle. E’ la sensazione che avvertono le persone affette dalla sindrome di Ekbom, il disturbo psicologico che porta ad avere allucinazioni tattili e prurito costante in una o più parti del corpo.

Chi ne soffre, sostiene con forte convinzione di avere vermi, ragni, insetti di natura indefinita sotto pelle, nonostante esami e medici dicano tutto il contrario. E per rimuoverli, si provoca lesioni con qualsiasi oggetto tagliente o appuntito trova disponibile, come lamette, coltelli, forbici e punteruoli. Le ferite auto inferte, i lembi di pelle rimossi, capelli e fibre che restano sotto pelle a causa del continuo sfregamento (spesso scambiati per le “antenne” e le zampette dei parassiti), vengono esibiti ai medici come prova dell’infestazione in atto. Chi ne soffre si lava di continuo, applica prodotti sul corpo e fa eseguire ripetute disinfestazioni a casa, che naturalmente non portano ad alcun miglioramento della patologia. Per questa ragione c’è chi addirittura è spinto a bruciare i vestiti e ad abbandonare la propria abitazione. I pazienti sono talmente convinti dell’infestazione che non intendono affidarsi a degli specialisti.

IL PRIMO CASO

Il primo caso noto in letteratura medica di sindrome di Ekbom o parassitosi delirante fu descritto a metà del XIX secolo dal dottor Charcellay De Thours, che visitò una paziente convinta di essere infestata da ragni dopo aver bevuto acqua contaminata da una fonte. Benché nei decenni successivi furono date diverse descrizioni alla patologia, chiamata con vari appellativi come Allucinazioni Cutanee Visive, Ipocondria Monosintomatica e Ossessione Allucinatoria Zoopatica, soltanto nel 1938 il neurologo Karl Axel Ekbom la descrisse accuratamente in tutte le sue caratteristiche. Per questa ragione la parassitosi delirante è nota anche con il nome di Sindrome di Ekbom.

CHI COLPISCE?

La parassitosi delirante o sindrome di Ekbom, interessa prevalentemente persone in tarda età o comunque nella fase antecedente alla senescenza, e nella maggior parte dei casi si tratta di donne. La patologia, come si legge in un articolo pubblicato nel Journal of Pshycopathology, si manifesta in maniera improvvisa, violenta, a seguito di un evento specifico come il contatto con un animale, con i vestiti di un’altra persona o l’assunzione di una sostanza infetta. Dopo di ciò compaiono le prime allucinazioni visive e sensoriali, che spingono a infliggersi lesioni per rimuovere il problema. Curiosamente la condizione può essere indotta nelle persone mentalmente predisposte; è noto il caso di due sorelle anziane che avevano sviluppato il medesimo disturbo abitando nella stessa casa, e quello di un’altra anziana che aveva “contagiato” con la parassitosi delirante altri membri della sua famiglia.

L’incidenza della malattia è maggiore in Europa e in Nord America, in una percentuale che oscilla tra il 5% e il 15%.

COME RICONOSCERLA

La maggior parte delle persone che hanno la sindrome di Ekbom riportano sensazioni che attribuiscono a movimenti di insetti che passano attraverso la pelle o che si muovono all’interno. Questa percezione anormale è chiamata “formicazione” e fa parte dei fenomeni noti come parestesie, che comprendono anche forature o intorpidimento. Sebbene le formiche siano uno dei “parassiti” più frequentemente indicati e danno nomi a termini diversi che sono usati per riferirsi alla sindrome di Ekbom, è anche comune per le persone con questo disturbo dire che hanno vermi, ragni, lucertole e altri piccoli animali. A volte affermano che questi sono invisibili.

Spesso l’aspetto della sindrome di Ekbom è associato a una iper attivazione dell’organismo dovuta al consumo di alcune sostanze. In particolare, la parassitosi delirante in molti casi è dovuta a Sindrome da astinenza nelle persone con dipendenza da alcol o al consumo eccessivo di cocaina o altri stimolanti.

Oltre ai disturbi psicotici, altre alterazioni nella struttura e nel funzionamento del cervello possono spiegare l’emergere di questo disturbo. Le malattie neurodegenerative (tra cui la demenza alcolica) e le lesioni traumatiche al cervello, ad esempio, sono due cause comuni della sindrome di Ekbom.

TRATTAMENTO

Il trattamento più efficace è quello farmacologico e psichiatrico. Insomma benchè sia molto rara è una sindrome che va tratta da specialisti e non ci si può affidare al caso. Come molte delle sindromi che ho descritto in questo blog.

Forse qualcuno si sta chiedendo perchè mi scervello a studiare tutte queste sindromi bizzarre non solo nel nome, ma anche nella sintomatologia. Curiosità, sete di conoscenza sono le risposte che più mi appartengono. Spesso siamo portati a giudicare le stranezze degli altri senza conoscere veramente cosa ci sia alla base. Bene, più conosciamo il cervello, più allarghiamo la rete delle nozioni e più diventiamo consapevoli che ognuno, a modo suo, è lì a combattere la sua battaglia quotidiana con mostri che anche se non vediamo, sono tutt’altro che innocui.

IL LATO OSCURO DELLA MELATONINA… (SE LA USI LO DEVI CONOSCERE)

Una ci fa dormire, l’altra ci dà la spinta ad alzarci dal letto. Una va in giro di giorno, l’altra di notte. E sono entrambe indispensabili per il nostro benessere. Di cosa  sto parlando? Di due sostanze di cui si fa un gran parlare e che tutti conoscono ma intorno alle quali regna una certa confusione: la serotonina e la melatonina.

Responsabile della produzione di queste due sostanze è la ghiandola pineale, o epifisi, sita nel nostro cervello: quando c’è luce produce serotonina e nel momento in cui la luminosità diminuisce comincia a produrre melatonina.

Per Cartesio la ghiandola pineale era il luogo privilegiato dove mente (res cogitans) e corpo (res extensa) interagiscono. Dopo decenni di profonda ignoranza in merito, le neuroscienze hanno smesso di trattare l’epifisi alla stregua di un’inutile appendice del cervello: il segreto di questa incredibile ghiandola endocrina, che riceve il più abbondante flusso sanguigno di qualsiasi altra ghiandola nel corpo, è celato nel fatto che è responsabile del ciclo di veglia/sonno, del nostro invecchiamento, di stati a più alta coerenza neurale (maggior chiarezza mentale), del ritmo di secrezione del cortisolo e della variazione della temperatura corporea, solo per fare qualche esempio.

La serotonina è il neurotrasmettitore che dice “alzati e vai”. Sveglia chi dorme e lo spinge a mettersi in moto. Quando invece si fa buio, la ghiandola pineale interrompe la produzione di serotonina per produrre melatonina, utile per farci dormire. E di cui spesso facciamo un uso scriteriato per riprenderci dal jet lag o gestire i disturbi del sonno.

MELATONINA E MEMORIA

La melatonina oltre a regolare i ritmi circadiani è coinvolta anche nello sviluppo della memoria. A dirlo i ricercatori dell’Università di Houston, in Texas, in una ricerca pubblicata sulla rivista Science, secondo cui la melatonina inibirebbe la formazione della memoria almeno in una particolare specie ittica: il pesce Danio zebrato.

La qualità della memoria del Danio zebrato è stata valutata nel corso della sperimentazione in base alla capacità di ricordare un semplice esercizio. In molti esperimenti, si è riscontrato come la formazione della memoria sia durante il giorno più solida che di notte, quando la melatonina viene secreta naturalmente.

I risultati di quest’ultimo studio mostrano che la melatonina somministrata durante il giorno sopprime la formazione della memoria. Quando i pesci erano esposti a luce costante, la formazione della memoria era più forte di notte e la melatonina era ridotta. Infine, quando al pesce erano somministrati farmaci che bloccano la loro capacità di secernere la melatonina di notte, la formazione della memoria veniva di nuovo migliorata.

PERCHE’ L’EVOLUZIONE FAVORISCE IL SONNO, STATO IN CUI TUTTI SONO POTENZIALMENTE PIU’ VULNERABILI?

A dare una risposta al quesito, la scoperta, pubblicata su Science,  di Maiken Nedergaard del Centro di Neuromedicina dell’Università di Rochester (New York, USA).

Studi precedenti avevano evidenziato come il sonno fosse utile a riorganizzare e consolidare i ricordi accumulati durante la  veglia. Ma perché il cervello è costretto a consumare così tanta energia anche nelle ore notturne? Lo studio condotto sui topi (che hanno un sistema nervoso simile al nostro), ha evidenziato come, durante il sonno, il sistema linfatico – il netturbino del cervello inietti liquor (un liquido presente nel sistema nervoso centrale) nei tessuti cerebrali, lavandoli dalle proteine tossiche accumulate durante il giorno. Questi scarti vengono reimmessi nel sistema circolatorio e inviati, come il resto delle tossine del nostro corpo, al fegato per essere smaltiti.

Il sistema di pulizie scoperto da Nedergaard è specifico del cervello, che è un ecosistema chiuso e rimane fuori dall’altro circuito ripulente del corpo umano, ossia il sistema linfatico.

Liberare il cervello dalle tossine richiede molta energia: ecco perché, ipotizzano i ricercatori, il dispendio energetico notturno del cervello non è molto inferiore a quello diurno. Ciò spiegherebbe anche perché questo processo avviene di notte, quando non stiamo processando attivamente informazioni: «Non puoi intrattenere gli ospiti e pulire casa contemporaneamente» spiega Nedergaard.

La ricerca fa emergere anche un’altra, sorprendente dinamica: durante il sonno, le cellule cerebrali si restringerebbero del 60% per permettere al liquor di penetrare in modo più capillare nel tessuto cerebrale e ripulirlo al meglio. A guidare l’operazione potrebbe essere la noradrenalina, un ormone che entra in gioco, generalmente, quando il cervello ha bisogno di essere estremamente vigile e che regolerebbe, in questo caso, la contrazione e l’espansione delle sue cellule.

MELATONINA: E’ DAVVERO SICURA?

Essendo una sostanza naturale perché secreta dal nostro corpo, spesso si pensa sia innocua da somministrare anche ai bambini per aiutarli a far pace con Morfeo: integratore, ma anche farmaco se il dosaggio supera i 2 mg, utilizzato sempre più spesso per risolvere i problemi d’insonnia, che colpiscono poco meno di 10 milioni di italiani e che sono in aumento anche nell’età pediatrica: il 35-40% dei bambini, infatti, soffre di problemi di sonno durante la crescita.

Noti sono infatti gli effetti collaterali. Anche se il suo uso a breve termine negli adulti è generalmente considerato sicuro, si può andare incontro a mal di testa, vertigini e sonnolenza durante il giorno. La melatonina potrebbe anche interferire con la pressione sanguigna, il diabete e aumentare il rischio di coagulazione del sangue, quindi non dovrebbe essere utilizzata da persone che già assumono altri farmaci che influenzano questa funzione, o da persone con questo tipo di disturbi.

QUANDO E’ INDICATA?

Vari studi hanno dimostrato l’efficacia della melatonina negli adulti per combattere i disturbi provocati dal jet-lag e dall’insonnia e riequilibrare il ritmo sonno-veglia. E’ adatta nella sindrome da fase di sonno ritardata, cioè in quelle persone che la sera non andrebbero mai a dormire, mentre al mattino fanno fatica ad alzarsi; nei casi di jet-lag, perché migliora sia il sonno sia i sintomi che compaiono di giorno, cioè malessere generale e disturbi gastrointestinali. E’ utile anche negli anziani perché spesso la sua secrezione si riduce con il progredire dell’età. Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Current opinion in pulmonary medicine ha dimostrato che alcuni trattamenti per l’insonnia, tra cui la melatonina, possono migliorare considerevolmente la qualità di vita oltre che il sonno dei pazienti affetti da Broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco).

NON SONO TUTTE UGUALI

La melatonina si trova in alcuni alimenti come orzo, olive e noci, ma viene prescritta come integratore reperibile in farmacia o in erboristeria sotto forma di compresse, sciroppi, tisane o, ultimo arrivato, spray.

Se si vuole usare la melatonina meglio farlo sotto la guida di un medico e comprarla in farmacia piuttosto che online o in altri canali commerciali. La melatonina farmaceutica ha un dosaggio preciso rispetto ai prodotti da banco. Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Sleep Medicine ha concluso che il 71% dei campioni di melatonina non rispettava il dosaggio stabilito e molti lotti contenevano addirittura cinque volte la dose indicata.

CONCLUSIONI

“Le persone pensano che la melatonina sia innocua, in realtà le persone ne abusano e non dovrebbe essere assolutamente usata come trattamento per l’insonnia” spiega Michael Grandner studioso del sonno dell’università dell’Arizona. Secondo uno studio del 2005 condotto dal MIT, il sovradosaggio di melatonina porterebbe all’inefficacia della stessa nel lungo periodo. Quando il cervello viene esposto continuamente all’ormone, quest’ultimo perderebbe la sua efficacia.

“La parola ‘sicura’ per questo farmaco è usata troppo liberamente – sostengono i ricercatori – non ci sono stati ancora studi seri che confermino la totale mancanza di effetti collaterali su bambini e adolescenti”. Anche per gli adulti tuttavia l’uso della melatonina sintetica va riconsiderato. Benché essa sia chimicamente identica a quella prodotta naturalmente dal cervello, può contenere ingredienti che potrebbero causare reazioni inaspettate.

 Dunque perché le persone ancora la usano? “Sfortunatamente ha la reputazione di essere sicura, naturale” dice Grandner. Questa convinzione spiegherebbe il motivo per cui la melatonina è così popolare. Un rapporto dei consumatori afferma che “La melatonina fa addormentare 7 minuti prima e prolunga il sonno di 8 minuti” e lo stesso rapporto sottolinea come “Il 20% di quelli che ne fanno uso hanno accusato un senso di stordimento il giorno successivo”.

“La melatonina non è una cura valida per l’insonnia – ripete Grandner – i problemi che rendono difficile il sonno non vengono risolti dalla melatonina”. Sarebbe meglio, secondo l’esperto, combattere l’insonnia praticando la cosiddetta igiene del sonno, ossia:

  • La stanza in cui si dorme non dovrebbe ospitare altro che l’essenziale per dormire. E’ da sconsigliare la collocazione nella camera da letto di televisore, computer, scrivanie per evitare di stabilire legami tra attività non rilassanti e l’ambiente in cui si deve invece stabilire una condizione di relax che favorisca l’inizio ed il mantenimento del sonno notturno. E dovrebbe essere sufficientemente buia, silenziosa e di temperatura adeguata
  • Evitare di assumere, in particolare nelle ore serali, bevande a base di caffeina o bevande alcoliche a scopo ipno inducente
  • Evitare pasti serali ipercalorici o comunque abbondanti e ad alto contenuto di proteine (carne, pesce)
  • Evitare il fumo di tabacco nelle ore serali
  • Evitare, nelle ore prima di coricarsi, l’esercizio fisico di medio-alta intensità
  • Il bagno caldo serale non dovrebbe essere fatto nell’immediatezza di coricarsi ma a distanza di 1-2 ore
  • Evitare, nelle ore prima di coricarsi, di impegnarsi in attività che risultano particolarmente coinvolgenti sul piano mentale e/o emotivo
  • Cercare di coricarsi la sera e alzarsi al mattino in orari regolari e costanti

GELOSO DA MORIRE. LA SINDROME CHE TRASFORMA L’AMORE IN MALATTIA

E’ sera inoltrata. Solo in casa, inganni il sonno navigando sui social, leggendo distratto notizie qua e là, quasi senza meta. All’improvviso qualcosa ti costringe a spulciare la timeline di Facebook del partner, con una precisione certosina da far impallidire un analista dei servizi segreti. E ti tormenti analizzando le foto in cui la lei/lui di turno sorride in mezzo agli amici, e ti chiedi ragione di ogni post i cui like fioccano come la neve a gennaio. Tutto è un indizio, pugnalate lievi ma precise nella pelle martoriata dalla gelosia.

La gelosia, quella dannata sensazione così difficile da esprimere a parole, ma dalle emozioni definite e chiare… La cartina di tornasole di tanti patimenti e inganni, con cui poeti, cantanti e scrittori hanno fatto fortuna.

Un po’ di gelosia è sana e anche utile, ben diversa è quella patologica e nello specifico quella nota come sindrome di Otello, dal dramma di Shakespeare Otello, il moro di Venezia, dove il personaggio uccide la moglie perché convinto della sua infedeltà.

QUANDO LA GELOSIA DIVENTA MALATTIA

La psicoterapeutica alla Goldsmiths University di Londra, Windy Drydon, sostiene che i disturbi legati alla gelosia patologica portino le persone a vedere una realtà distorta dove la relazione è ambigua e nasconde un tradimento mirato esclusivamente a provocare dolore e a sconfiggere l’autostima.

Si può chiamare anche gelosia morbosa e colpisce moltissime persone, donne e uomini, di tutte le culture e ceti sociali. “A volte a scatenare la gelosia morbosa è un semplice atteggiamento gentile del partner nei confronti del sesso opposto, e talvolta, anche quando rivolto allo stesso sesso. Nei casi più estremi, si arriva a uccidere il proprio partner per poi suicidarsi”. Ecco svelato il perché del riferimento alla famosa opera di Shakespeare.

Il mondo digitale e dei social network non è un toccasana per le patologie come la Sindrome di Otello, in quanto l’essere a continuo contatto con le immagini della vita altrui ci fa sentire in perenne confronto con gli altri e di conseguenza gelosi. Secondo un’analisi di Scope, una charity dedicata alle disabilità sociali, il 62% degli utenti online si sentirebbe inadeguato e svilupperebbe forme di gelosia estreme a causa del web.

Spesso la Sindrome di Otello ha i suoi primi sintomi proprio nel mondo digitale: si comincia con l’ossessione da social network, quando si controllano nervosamente le pagine Facebook, Twitter, Instagram del partner per trovare atteggiamenti sospetti che denuncino un tradimento o una mancanza di rispetto.

COME NASCE LA GELOSIA

Non è un’emozione primaria come rabbia, vergogna o tristezza, bensì qualcosa di più complesso che richiede un’elaborazione più articolata. La gelosia è un sentimento fatto di ansia e incertezza, e la diretta conseguenza può essere la rabbia verso chi sia più considerato dalla persona amata, ma anche verso la stessa persona amata. Molti psicologi e psichiatri sono d’accordo nel sostenere che nella gelosia morbosa prevale la dimensione ansiosa e di insicurezza: quando cioè il geloso si sente inadeguato rispetto il partner. La gelosia si avvicina al vissuto della rabbia e dell’odio, invece, quando la sensazione è quella di patire un torto, un tradimento, di essere parte lesa. E’ quindi spesso associata a tratti quali la moralità, la rigidità valoriale, una visione del mondo dicotomica, semplicistica e riduzionistica ma totalizzante. Ha molto a che fare con il bisogno di primeggiare, di essere il numero uno nei pensieri e nei desideri di qualcuno.

Esistono varie sfumature che la gelosia assume nel diventare sindrome di Otello. C’è chi la vive in un contesto di sadismo e possessività, dove la persona amata diventa un oggetto an-empatico, dove addirittura il piacere è dato dalla sofferenza dell’altro. C’è chi la vive in modo delirante, in cui, a fronte di un’inconsistenza di prove, la persona gelosa è assolutamente convinta del tradimento. Non si tratta solo di attimi di irrazionalità, ma di veri e propri pensieri strutturati in cui c’è la convinzione di essere traditi. Queste forme sono rare e appartengono alla psicopatologia.

Il caso psichiatrico più grave di gelosia delirante pare essere quello dell’erotomania: la convinzione di essere amato e poter dunque vantare diritti su una persona che spesso nemmeno si conosce, dove si delinea un percorso emotivo che va dalla speranza fino al rancore, passando attraverso il dispetto.

CHI SONO I GELOSI MORBOSI?

La cronaca nera riporta spesso raptus vissuti da profili identificabili in situazioni note. Più del 60% dei casi infatti riguarda coppie sposate, mentre oltre l’85% delle volte è l’uomo a uccidere. Il quadro professionale degli autori dei delitti è quello medio-basso, con un’alta presenza di disoccupati, con un’età che varia dai 31 ai 51 anni. Il delinquente passionale è una persona che si caratterizza per un attaccamento con la figura materna, fatto di paura di non essere accudito, di ansia per la mancanza di protezione, con conseguente desiderio di un’amore-fusionale, una sorta di fissazione che impedisce la realizzazione di un amore maturo.

GELOSIA E CERVELLO

La gelosia delirante a cui sono associati comportamenti aggressivi come lo stalking, il suicidio o l’omicidio sarebbe legata ad uno squilibrio di una specifica area del cervello. È il risultato di uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, pubblicato sulla rivista «Cns – Spectrums» della Cambridge University Press.

Secondo gli autori, le radici neuronali della sindrome di Otello si troverebbero nella corteccia frontale ventro-mediale, un’area del cervello che sovrintende complessi processi cognitivi e affettivi.

Se la gelosia è un sentimento del tutto naturale, il punto è individuare lo squilibrio biochimico che trasforma questo sentimento in un’ossessione pericolosa. Pensare che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa importante della propria vita, interpretare erroneamente i comportamenti e i sentimenti del partner e percepire la sua perdita come una totale catastrofe sono ad esempio sintomi che alla fine possono portare a comportamenti aggressivi ed estremi. «La speranza – spiegano gli autori dello studio – è che una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali e delle alterazioni biochimiche che sottendono i vari aspetti della gelosia delirante, possa aiutare ad arrivare ad un’identificazione precoce dei soggetti a rischio».

COME RICONOSCERE LA SINDROME DI OTELLO

Alcuni aspetti che caratterizzano la sindrome:

  • Incorporazione di una terza parte immaginaria nella relazione della coppia.
  • Il soggetto non sa come controllare la sua gelosia perché non è consapevole del suo problema.
  • È costantemente vigile e vigile con le abitudini del suo partner.
  • Percezione errata degli eventi quotidiani della coppia, legati alla gelosia. Cerca sempre la giustificazione una situazione di inganno.
  • Impossibilità di controllare impulsi, pensieri, false percezioni autoimposte.

COME COMPORTARSI CON UN POTENZIALE OTELLO

Sempre secondo gli studi condotti dalla Drydon, coloro che hanno una relazione con chi soffre di questa patologia dovrebbero non eccessivamente rassicurare il partner. Piuttosto rivolgersi al partner geloso con affermazioni come “Ti amo, ma non risponderò a questa domanda“, perché la continua ostentazione di rassicurazione farebbe più male che bene al soggetto morbosamente geloso. “I gelosi ossessivi devono far fronte alla loro paura che non ci si può fidare di nessuno e capire con le loro forze che la radice di quella gelosia morbosa è patologica e quindi non fondata sulla realtà“. La Sindrome di Otello infatti porta a paranoia e mania del controllo sugli altri, atteggiamenti decisamente nocivi per la coppia e per lo stesso individuo.

Stando agli psicologi, non esiste una vera e propria cura per la Sindrome di Otello, ma ciò che può essere fatto per sfuggire alle grinfie del personaggio Shakespeariano è anzitutto riconoscere di essere dei gelosi morbosi. Molto spesso la gelosia morbosa porta all’impossibilità di godersi il tempo con se stessi e con gli altri, per esempio guardare un film o ascoltare la musica, perché le scene dei film e le parole delle canzoni fanno personalizzare il soggetto nelle situazioni amorose e causano depressione, ansia, panico, paranoia. Parlare di questo disturbo senza filtri però si può ed è molto più comune di quello che pensiamo.

Il consiglio migliore è comunque sempre quello di rivolgersi a uno specialista.

BELLO DA STAR MALE: LA SINDROME DI STENDHAL

Tutti ne hanno sentito parlare. E probabilmente anche tu, se sei anche solo uno sporadico frequentatore di musei e gallerie, conosci qualcuno che afferma di esserne stato colpito. Sto parlando della Sindrome di Stendhal, fenomeno che aggredisce inaspettatamente la persona che si trova ad osservare un’opera d’arte ai suoi occhi di incommensurabile bellezza. Vertigini, tachicardia, confusione, crisi di pianto, ansia… Insomma, la Sindrome di Stendhal, per quanto sgradevole, sembra essere la manifestazione dell’immenso potere dell’arte sulla nostra psiche.

Nota anche come Sindrome di Firenze, venne descritta per la prima volta dallo scrittore francese Stendhal, nel suo libro Roma, Napoli e Firenze. L’autore della Certosa di Parma, sperimentò lui stesso questo fenomeno durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Qui fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo.

RICERCHE E STUDI

E’ stata una psichiatra italiana a teorizzare per la prima volta questa sindrome: Graziella Magherini, responsabile del Servizio di Salute mentale dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Firenze. Nel 1977, analizzò le reazioni di più di 100 turisti usciti dagli Uffizi, in preda a singolari malori, riuscendo a cogliere tratti fra loro comuni. Le sue ricerche sono raccolte in un libro La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte.

Nello studio vennero osservati soggetti per lo più di sesso maschile, di età compresa fra 25 e 40 anni e con un buon livello di istruzione scolastica, che viaggiavano da soli, provenienti dall’Europa Occidentale o dal Nord-America che si mostravano interessati all’aspetto artistico del loro itinerario. L’esordio del disagio si presentò poco tempo dopo il loro arrivo a Firenze, e si verificò all’interno dei musei durante l’osservazione delle opere d’arte.

In merito alla sua ricerca, Graziella Magherini affermò “La Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di colpire gli stati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e strutture che normalmente sono rimosse”.

Già Freud, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno smarrimento cognitivo, l’opera d’arte come importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi.

E poi Goethe, Sterne, Proust e Dostoevskij descrissero successivamente nei loro scritti, con differenti emozioni l’effetto che le opere rinascimentali provocarono quando si trovarono dinnanzi al loro cospetto.

I SINTOMI

Sono vari e possono comparire non solo di fronte a opere d’arte, ma anche ascoltando musica. Vertigini, svenimenti, tachicardia, attacchi di panico, addirittura allucinazioni; che potrebbero in alcuni casi sfociare in stati d’ansia prolungati. Come se il cervello andasse in sovraccarico da meraviglia e non potesse contenere tutto ciò che vede senza rimanerne folgorato nel profondo. Più colpite sembrano essere persone particolarmente sensibili e in luoghi ricchi di stimoli artistici, come Firenze appunto.

Sensazioni estatiche, definite però anche patologiche, non a caso la Sindrome di Stendhal ha anche un altro nome: malattia da iperculturemia.

Dalla sua definizione, nel 1977, si è discusso molto in psicologia, e sono molti gli studiosi che affermano che in realtà non esista o che possa essere assimilata ad altre sindromi più generiche e ampie, come quella del viaggiatore.

La Magherini ha anche cercato di capire se alcune opere più di altre fossero responsabili dello scatenarsi della sintomatologia. Michelangelo è risultato essere l’artista che più di altri ha contribuito a scuotere gli animi e nello specifico il suo David. “Il David presenta delle caratteristiche eccezionali: in primo luogo possiede una bellezza anatomica straordinaria e poi, contemporaneamente, è un eroe biblico e, per la città, un eroe civico. Soprattutto, ciò che colpisce chiunque, è il lato estetico: è un bellissimo nudo e ciò riesce a influenzare l’animo di alcune persone rendendole in qualche modo eccitate, depresse e così via, influenzando perciò l’emotività dello spettatore, in un senso o in un altro”.

NEURONI SPECCHIO, CERVELLO E STENDHAL: COSA LI UNISCE?

Grazie alla scoperta dei neuroni-specchio, negli anni ’90 (ne abbiamo parlato in un precedente articolo: EMPATIA: L’ANTIDOTO A PREGIUDIZI, CONFLITTI E DISEGUAGLIANZA) , è più facile ora capire cosa succede nel cervello quando ci si trova di fronte un’opera d’arte. Nelle persone particolarmente sensibili sembra arrivino troppi impulsi visivi nello stesso momento, e che questi producano così un’intensa eccitazione, che si tramuta nei sintomi che abbiamo descritto.

Secondo il neurologo Semir Zeki, siamo dotati di un cervello visivo con cui possiamo cercare di spiegare e capire la creazione artistica. Allo stesso modo siamo dotati di un cervello artistico, prolungamento di quello visivo. Il nostro cervello non è un semplice spettatore passivo che si limita a registrare la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che vediamo di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte.

La risposta del cervello di fronte all’arte potrebbe non solo fornire spiegazioni maggiori sulla Sindrome di Stendhal, ma anche capire meglio il funzionamento del cervello, le cui logiche non sono ancora del tutto conosciute.

L’APPROCCIO PSICOANALITICO

Secondo l’approccio psicoanalitico chi soffre della Sindrome di Stendhal non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.

Un concetto, questo del viaggio sentimentale, già proposto da Laurence Sterne (1713-1768), precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo sentimental una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

COSA FARE SE VENIAMO CATTURATI DA STENDHAL…

Quando il problema persiste nel tempo, è consigliabile andare da un medico specializzato. Nella maggior parte delle volte, a quasi tutti è capitato di rimanere assolutamente affascinati dalla bellezza, fosse per un oggetto d’arte o un’aria musicale. Probabilmente chi arriva al punto di svenire e di provare malessere davanti alla bellezza in sé conserva una sensibilità estremamente accentuata che può risultare difficile da gestire.

Ma è pur vero che la maggior parte di coloro che intraprendono un viaggio in solitudine, in luoghi fortemente suggestivi e capaci di indurre forti reazioni emozionali, possono inciampare in alcuni sintomi propri della sindrome, pur senza conseguenze preoccupanti.

Anche lo scrittore russo Fëdor Michailovic Dostoevskij inciampò in questa sindrome, durante la visione del quadro di Holbein, un volto tumefatto, pieno di ferite sanguinolente. Insomma sono molti coloro che hanno conosciuto la sindrome.

Perdersi nella bellezza, posso sostenere da profano, che sia alla fine una fortuna. Non tutti sanno cogliere l’estetica e il vissuto di un’opera d’arte e se succede, senza lasciare strascichi ovviamente, non può che essere una esperienza arricchente. L’apertura di una porta sulla magnificenza che talvolta dimentichiamo che è solo lì ad aspettarci.