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SE SBAGLI A PRENDERE DECISIONI, PUOI DARE LA COLPA ALLA (TUA) IRRAZIONALITA’… MA NON TUTTO IL MALE VIENE PER NUOCERE

Sbagliamo in continuazione. Sbagliamo in modo ricorrente e sistematico. Sbagliamo più di quanto crediamo. Sbagliamo perché per arrivare in fretta a delle conclusioni, lasciamo fare all’istinto, all’irrazionalità (a quello che è stato definito dal premio Nobel Daniel Kahneman, il papà dell’economia comportamentale), al cervello veloce.

E di errori, quando siamo occupati a prendere decisioni, ne facciamo davvero tanti. Ne sono stati contati oltre cento, 188 per essere precisi. Vere e proprie trappole mentali, che per riuscire a prevenire, gestire e controllare occorre conoscerne punti di forza e di debolezza.

Ecco le più ricorrenti ma anche le più subdole, e alcuni segreti su come rendere agli errori vita difficile.

EFFETTO FRAMING

Siamo fortemente condizionati dal modo in cui ci viene presentato un problema. Un pasto abbondante presentato in un piatto piccolo è più appagante di uno pasto scarso contenuto in un piatto grande, anche a parità di quantità.

Esempio

Quando presenti delle opzioni o chiedi agli utenti le loro esperienze durante l’utilizzo di un prodotto, un’app, un servizio che offri, fai attenzione a come inquadri la domanda.

Cosa ti è piaciuto / non ti è piaciuto di questo prodotto, può indurre le persone a concentrarsi solo sugli aspetti positivi o negativi del prodotto, portando a falsi positivi o negativi.

Un modo neutro di porre la medesima domanda potrebbe invece essere Puoi descrivere l’ultima volta che hai usato questo prodotto? O Come ti senti quando usi questo prodotto? Impostando la domanda in questo modo sarà più facile ottenere risposte imparziali e non viziate da bias ed euristiche, ossia da trappole mentali.

BIAS DI CONFERMA

Questo è uno degli errori più cattivi. E’ estremamente comune e difficile da correggere.

Ci piacciono i dati che confermano le nostre ipotesi, le nostre credenze e siamo portati a scartare quelli che le sfidano o le condannano.

Esempio

Chiedere: Hai mai considerato di eseguire l’azione X tramite l’app Y e ottenere una risposta del tipo Sì! Tutta la settimana!. Non dovrebbe essere considerata una buona risposta, perché molto molto lontana dalla realtà.

Quando ottieni una risposta positiva per qualcosa, controlla e ricontrollala. Chiediti perchè la persona abbia intrapreso tale azione, ad esempio. Potrebbe non aver avuto altre opzioni…

Inoltre informati sulle volte in cui ha utilizzato quell’applicazione o quel prodotto, chiedi prova che sia realmente così. Ci potrebbe essere la possibilità che ha dato quel tipo di conferma solo per farti piacere o per eludere domande più specifiche. Se ci fai caso, quante volte tu stesso hai risposto con un sì enfatico, pur di chiudere un discorso?

SENNO DI POI

Al fine di creare sincronicità e ordine, cerchiamo involontariamente di trovare ragioni e spiegazioni per eventi accaduti nel passato, pur senza avere alcuna prova fattuale.

Esempio

Quando conduciamo ricerche, spesso chiediamo alle persone di scavare nel loro passato per trovare esempi e prove aneddotiche. E spesso quando approfondiamo il perché, sentiamo diverse ragioni su come hanno affrontato determinate difficoltà / intrapreso determinate azioni.

Un negoziante si potrebbe lamentare del fatto che la sua attività non funziona bene a causa dell’arrivo di Internet che induce la clientela a comprare online anziché recarsi di persona nel negozio. Quindi, porre la contro domanda, ossia perché non utilizzava anche lui l’e-commerce, si potrebbero ricevere risposte sorprendenti: I siti non si prendono cura dei clienti e se c’è qualche problema con il prodotto è il marchio a subire il danno maggiore. Questa è una chiara indicazione che il negoziante non è davvero a conoscenza di come funziona l’e-commerce e del fatto che i clienti hanno la possibilità di restituire articoli danneggiati e fornire recensioni ai venditori.

FALLACIA DEI COSTI SOMMERSI

Più denaro investiamo, più diventa difficile abbandonare un progetto anche quando questo si rivela poco vantaggioso. Proprio come avviene al casinò, tendiamo a puntare somme più grandi, via via che perdiamo…

Esempio

Quando investiamo tempo e/o denaro in un progetto, quel tempo e quel denaro possono diventare un problema più che una risorsa. Proprio perché ne abbiamo già investito tanto, abbiamo la tendenza a non mollare, ad immetterne dell’altro per non perdere quanto già investito.

Per evitare questa trappola è importante bilanciare i nostri sforzi e le nostre ricompense, fra quanto investito e gli obiettivi raggiunti. Sarà così facile capire se si è ancora in credito o irrimediabilmente in debito e lasciare la nave!

POSIZIONE SERIALE

Se il tuo nome inizia con la M e fa parte di un elenco in ordine alfabetico, con molta probabilità il tuo nome non verrà notato.

E’ la tendenza di una persona a ricordare meglio il primo e l’ultimo oggetto di una serie, rispetto quelli in mezzo. Il termine è stato coniato da Hermann Ebbinghaus, e si riferisce alla constatazione che l’ accuratezza del richiamo varia in funzione della posizione di un oggetto all’interno di un elenco. Quando viene chiesto di richiamare un elenco di elementi in qualsiasi ordine, le persone tendono a iniziare il richiamo con la fine dell’elenco.

ILLUSIONE DELLA TRASPARENZA

Tendiamo a sopravvalutare la misura in cui gli altri sanno cosa stiamo pensando.

Esempio

Nelle interviste, molti partecipanti provano a trasmettere le proprie emozioni attraverso il linguaggio del corpo, le pause e altri segnali non verbali. L’illusione della trasparenza rende loro difficile sapere se il messaggio viene trasmesso correttamente.

Ciò significa che abbiamo bisogno di un meccanismo diverso per capire se ci stiamo perdendo alcuni di questi aspetti che potrebbero non essere colti nell’intervista. Ecco perché è importante fornire un feedback positivo. Può essere semplice come: Quindi, da quello che hai detto, è come se ti sentissi così riguardo a questa funzione, correggimi se sbaglio.

Spesso rimarrai sorpreso nel sapere che molto di ciò che è stato detto, è stato interpretato in modo totalmente differente.

DISTORSIONE IMPLICITA

Il pregiudizio implicito è davvero difficile da sradicare poiché è stato introiettato nella nostra coscienza attraverso i media, le persone intorno a noi, l’educazione e l’ambiente nel corso del tempo.

Esempio

Può accadere che quando parliamo con persone appartenenti a specifici gruppi demografici, razziali o etnici di cui abbiamo già idee preconcette, siamo portati  a comportarci in modi diversi da quelli che avremmo se non avessimo quegli stessi pregiudizi (come essere eccessivamente educati con le persone disabili quando preferiscono essere trattati come persone normali).

È sempre importante ricordare che il nostro dovere è cercare di capire veramente cosa sta succedendo nella mente dei nostri interlocutori, anche se ciò significa silenzi imbarazzati o piccoli disaccordi.

 

In sintesi, i pregiudizi che puoi eliminare per migliorare il tuo processo decisionale ma anche la vita di tutti i giorni:

  1. Effetto framing: il modo in cui è posta la domanda, può influenzare la risposta
  2. Bias di conferma: tendiamo a cercare solo prove a conferma della nostra ipotesi
  3. Distorsione del senno di poi: tendiamo a trovare ragioni a sostegno delle azioni e delle decisioni prese nel passato
  4. Fallacia dei costi sommersi: tendiamo a difendere le perdite più di quanto dovremmo
  5. Effetto posizione seriale: ricordiamo di più gli elementi a fine/inizio di una lista, piuttosto che quelli nel mezzo
  6. Illusione di trasparenza: sopravvalutiamo quanto gli altri stanno pensando
  7. Distorsione implicita: tendiamo a fare associazioni inconsce in base a preconcetti positivi e negativi

E’ TUTTA COLPA DEL TESTOSTERONE! EPPURE NON POSSIAMO FARNE A MENO…

Qualcuno lo usa per combattere l’invecchiamento. Altri per aumentare le prestazioni fisiche e l’autostima. Non a caso in molti Paesi, in primis negli Stati Uniti, l’uso che se ne fa è massivo, imprudente anche perchè sostenuto da campagne pubblicitarie che ne decretano potenzialità ed effetti positivi.

Insomma dopo l’abuso di psicofarmaci, antidolorifici e oppiacei è la volta del testosterone.

RUOLO DEL TESTOSTERONE

Il testosterone è un ormone prodotto soprattutto dai testicoli (un po’ lo secernono anche ovaie e corteccia surrenale), che raggiunge il suo picco di produzione intorno ai venti anni e che si sa essere legato ad aggressività e impulso sessuale.

Livelli bassi di questo ormone nell’uomo sono rare e non tutte, dicono i medici, vanno curate integrando con altro testosterone. Eppure la Food and Drug Administration, l’agenzia federale che sorveglia i farmaci negli Usa, avverte che sono oltre due milioni gli americani trattati ogni anno con testosterone: il doppio rispetto a qualche anno fa. E in questo caso l’uso di un farmaco non necessario non solo può creare rischi per la salute, ma ha anche conseguenze sociali perché modifica il comportamento di chi ne fa uso.

Le ricerche condotte dai neuroscienziati cognitivi della University of Pennsylvania denunciano l’eccesso di fiducia, le decisioni impulsive, la tendenza a esporsi a rischi molto elevati di chi fa uso di testosterone. Nonchè alterazioni dei processi decisionali e difficoltà nel controllo dei propri impulsi.

TESTOSTERONE E WALL STREET

Esempi di questa iperattività si possono riscontrare ovunque: dalle liti dopo un incidente stradale a un’eccessiva propensione al rischio dei «trader» di Borsa, dai tifosi allo stadio, alle urla fra vicini di casa.

Due team di neuroeconomisti della Claremont University negli Usa e della Western University dell’Ontario, in Canada, hanno condotto diversi esperimenti somministrando a operatori di Borsa pomate agli ormoni e «placebo» ed esaminando successivamente i loro comportamenti in simulazioni di transazioni finanziarie. Quelli trattati con testosterone hanno deciso più in fretta prendendo rischi molto più elevati.

L’eccesso di testosterone a Wall Street è stato a lungo mitizzato, come testimoniano i film di Martin Scorsese e Oliver Stone. Tutto finito con il crollo finanziario del 2008.

Al Forum di Davos dell’anno dopo il dibattito più seguito fu quello nel quale ci si chiese se la banca che provocò lo «tsunami» sarebbe crollata anche se, anziché Lehman Brothers, si fosse chiamata Lehman Sisters. Perché le donne riflettono di più, sono meno avventate nell’assumersi rischi. Alla fine la giuria sentenziò che in finanza servono tanto l’audacia degli uomini quanto la prudente saggezza delle donne. Studi più recenti giungono a conclusioni più nette. Il testosterone (presente anche nelle donne ma in quantità minore e comunque prescritto quasi esclusivamente agli uomini) va somministrato con estrema cura tenendo conto che provoca alterazioni significative della personalità.

In America lo si può avere solo con una ricetta medica, ma la Fda ha accertato che in un caso su quattro la prescrizione viene fatta senza nemmeno misurare la quantità di ormoni presenti nel sangue del paziente. Che la cosa abbia a che fare con quegli spot suadenti nei quali, dopo che ti sei cosparso di testosterone, guidi pattuglie di amici su picchi ghiacciati, passerelle di funi in mezzo alla giungla, mentre, quando torni in città, le donne si fermano a guardarti con occhio languido?

DECISIONI AVVENTATE

Il testosterone ha anche la capacità di condizionare la presa di decisioni. Collin Camerer economista del California Institute of Technology, ha organizzato un semplice test basato su domande “trabocchetto”, che inducevano a dare una risposta intuitiva, ma sbagliata, mentre la risposta esatta richiedeva un ragionamento più approfondito.

Come ad esempio, se una racchetta con una palla costa 1,10 euro, e la racchetta costa un euro più della palla, quanto costa la palla? Viene da rispondere di getto 10 centesimi, ma è un errore, perchè così la racchetta costerebbe solo 90 centesimi di più. La risposta giusta, a cui si arriva con qualche secondo di riflessione, è che la palla costa 5 centesimi. Al questionario sono stati chiamati a rispondere 243 giovani uomini, a una metà dei quali, scelta casualmente, è stato applicato un gel al testosterone sulla pelle, per aumentarne la concentrazione nel sangue, e all’altra metà un gel inerte, come placebo.

Per evitare che i volontari rispondessero in modo svogliato o affrettato, Camerer ha previsto un premio in denaro, un dollaro a risposta esatta, e non ha fissato limiti di tempo per terminare il test. Come riportato su Psychological Science, il controllo delle risposte e dei video dei volontari mentre rispondevano, ha dato risultati molto chiari: quelli che avevano ricevuto il gel al testosterone hanno fatto il 20 per cento in più di errori di quelli che avevano ricevuto il placebo, e anche il modo in cui hanno risposto è stato rivelatore.

«I volontari con i livelli di testosterone aumentati ci mettevano più tempo a dare le risposte giuste e meno tempo a dare quelle sbagliate rispetto agli altri» dice Camerer. «Questo fa pensare che il testosterone alteri le capacità cognitive aumentando troppo il senso di fiducia nelle proprie intuizioni, spingendo così a rispondere d’impulso e soffocando quei dubbi che ci permettono di autocorreggere il nostro comportamento».

Quindi il testosterone non solo fa diventare più aggressivi, inducendo a comportamenti rischiosi, ma rende anche meno capaci di riflettere su quanto si sta facendo. E questo può avere conseguenze disastrose non solo a livello individuale, ma addirittura di economia globale, come gli studi sui trader esplicitati sopra hanno dimostrato.

AUTO SPORTIVE E OGGETTI FIRMATI

Anche comprare auto sportive e vestiti firmati è un comportamento da attribuire al testosterone. Più è alto il suo livello, maggiore è la preferenza per gli oggetti lussuosi e firmati, e i marchi considerati uno status symbol, come Ferrari o un paio di jeans di uno stilista famoso. Un risultato che ha senso, se si considera che una delle principali funzioni del testosterone è generare comportamenti con cui si cerca e si protegge il proprio status e prestigio.

“Nel regno animale, il testosterone spinge all’aggressività, che serve anche allo status. Molti umani sostituiscono l’aggressione fisica con una sorta di aggressione ‘consumistica’”, aggiunge Colin Camerer che rimanda al comportamento del pavone maschio quando mostra la sua elaborata coda. “Se non avesse bisogno di attrarre una compagna, per un pavone sarebbe più facile vivere senza quella coda, per scappare più facilmente dai predatori e trovare cibo. I maschi umani probabilmente starebbero meglio senza spendere 300.000 dollari per un’auto, ma comprandola possono dimostrare alla gente che sono sufficientemente ricchi”.

Nello studio sono stati osservati 243 volontari maschi tra i 18 e 55 anni, una parte dei quali ha ricevuto una dose di gel con testosterone e altri un placebo. Nel primo esperimento dovevano classificare su una scala da 1 a 10 un marchio di alto prestigio sociale e un altro di minor prestigio ma equivalente qualità, mentre nel secondo dovevano scegliere tra le pubblicità di macchine, occhiali da sole e macchine del caffè, che ne enfatizzavano lussuosità e potere. In entrambi i casi gli uomini con più testosterone sceglievano i beni di lusso. “Tra gli animali i maschi spendono un sacco di tempo ed energia a combattere per stabilire il loro dominio – conclude -. Anche noi lo facciamo, ma le nostre armi sono i vestiti, le macchine e le case”.

NON TUTTO VIENE PER NUOCERE

Il testosterone svolge un ruolo determinante sulla modulazione della  serotonina, un ormone che ha effetti importanti sul tono dell’umore.

La serotonina avrà effetti negativi in un contesto dove il testosterone è basso, diminuendo così le concentrazioni della stessa, mentre in un contesto dove il testosterone è fisiologico o addirittura alto, allora le concentrazione aumenteranno, con conseguenze positive sull’umore.

Il testosterone, svolge un ruolo importante, anche per ciò che riguarda la memoria. Alti livelli di testosterone, sono stati associati ad una memoria migliore. Questa cosa non si è verificata solamente nei maschi, ma bensì anche nelle donne.

COME AUMENTARE IL TESTOSTERONE NATURALMENTE

Prima di abusare di sostanze esterne, se proprio non possiamo fare a meno di alzare i livelli del testosterone ecco quattro consigli naturali che i medici consigliano senza il timore di avversi effetti collaterali.

  1. Abbassa i livelli di zucchero nel sangue

Mangiare un sacco di dolci, zucchero e carboidrati raffinati (pasta, pane, pizza, crackers, ecc) induce un aumento brusco dell’indice glicemico. In uno studio i ricercatori hanno somministrato a 74 uomini un test del glucosio standard che consisteva in 75 grammi di zucchero in una forma di glucosio puro. Quello che hanno visto è stato che in tutti i loro soggetti i livelli di testosterone sono scesi fino al 25%, indipendentemente dal fatto che gli uomini erano sani, pre-diabetici o diabetici. Circa 2 ore dopo il carico di glucosio, il 15% dei soggetti aveva dei livelli di testosterone ancora bassi che sono quelli per cui i medici spesso prescrivono sostituzione con testosterone sintetico.

  1. Fai attività fisica anaerobica

Esercizi che mirano all’aumento della massa muscolari stimolano la produzione di testosterone nell’organismo. Eseguire quindi esercizi di forza più volte a settimana, come squat, piegamenti, panca e trazioni sono efficaci per incrementare la produzione di testosterone.

  1. Riposa

Affaticare il proprio corpo sia con lo stress quotidiano che con un’eccessiva attività fisica, ha l’effetto di inibire la produzione di testosterone. Secondo uno studio la mancanza di sonno può portare a una diminuzione dei livelli di testosterone anche del 50 per cento. I risultati infatti hanno mostrato che i ragazzi che avevano dormito per 4 ore, avevano livelli di testosterone di circa 200-300 ng/dl, mentre i ragazzi che dormivano per 8 ore, avevano i loro livelli di circa 500-700 ng/dl. Cerca di avere almeno otto ore di sonno nelle ore migliori per dormire.

  1. Assimila i giusti nutrienti

Con un’alimentazione carente di alcuni nutrienti, il testosterone non può essere prodotto. Lo zinco è importante per la produzione di testosterone e le migliori fonti di zinco sono alimenti ricchi di proteine ma anche fagioli, yogurt fatto in casa, kefir, semi di zucca e semi di girasole. Tieni a mente che la cottura riduce il contenuto di zinco da questi alimenti.

La vitamina D è essenziale per la sintesi del testosterone. La migliore fonte di vitamina D è la naturale esposizione al sole.

Mangiare grassi sani che includono i grassi saturi di origine animale e olio di cocco contribuirà a dare i livelli di testosterone una grande spinta. Altre buone fonti di grassi sani sono olio extravergine d’oliva, frutta secca, uova e avocado. E’ importante assumere molti grassi per avere un sano sistema endocrino, infatti tutti gli ormoni dell’organismo vengono prodotti a partire dai grassi.

A questo punto, se proprio non possiamo fare a meno di acquistare un’auto di super lusso, possiamo sempre dar la colpa al nostro testosterone!

 

BELLO DA STAR MALE: LA SINDROME DI STENDHAL

Tutti ne hanno sentito parlare. E probabilmente anche tu, se sei anche solo uno sporadico frequentatore di musei e gallerie, conosci qualcuno che afferma di esserne stato colpito. Sto parlando della Sindrome di Stendhal, fenomeno che aggredisce inaspettatamente la persona che si trova ad osservare un’opera d’arte ai suoi occhi di incommensurabile bellezza. Vertigini, tachicardia, confusione, crisi di pianto, ansia… Insomma, la Sindrome di Stendhal, per quanto sgradevole, sembra essere la manifestazione dell’immenso potere dell’arte sulla nostra psiche.

Nota anche come Sindrome di Firenze, venne descritta per la prima volta dallo scrittore francese Stendhal, nel suo libro Roma, Napoli e Firenze. L’autore della Certosa di Parma, sperimentò lui stesso questo fenomeno durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Qui fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo.

RICERCHE E STUDI

E’ stata una psichiatra italiana a teorizzare per la prima volta questa sindrome: Graziella Magherini, responsabile del Servizio di Salute mentale dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Firenze. Nel 1977, analizzò le reazioni di più di 100 turisti usciti dagli Uffizi, in preda a singolari malori, riuscendo a cogliere tratti fra loro comuni. Le sue ricerche sono raccolte in un libro La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte.

Nello studio vennero osservati soggetti per lo più di sesso maschile, di età compresa fra 25 e 40 anni e con un buon livello di istruzione scolastica, che viaggiavano da soli, provenienti dall’Europa Occidentale o dal Nord-America che si mostravano interessati all’aspetto artistico del loro itinerario. L’esordio del disagio si presentò poco tempo dopo il loro arrivo a Firenze, e si verificò all’interno dei musei durante l’osservazione delle opere d’arte.

In merito alla sua ricerca, Graziella Magherini affermò “La Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di colpire gli stati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e strutture che normalmente sono rimosse”.

Già Freud, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno smarrimento cognitivo, l’opera d’arte come importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi.

E poi Goethe, Sterne, Proust e Dostoevskij descrissero successivamente nei loro scritti, con differenti emozioni l’effetto che le opere rinascimentali provocarono quando si trovarono dinnanzi al loro cospetto.

I SINTOMI

Sono vari e possono comparire non solo di fronte a opere d’arte, ma anche ascoltando musica. Vertigini, svenimenti, tachicardia, attacchi di panico, addirittura allucinazioni; che potrebbero in alcuni casi sfociare in stati d’ansia prolungati. Come se il cervello andasse in sovraccarico da meraviglia e non potesse contenere tutto ciò che vede senza rimanerne folgorato nel profondo. Più colpite sembrano essere persone particolarmente sensibili e in luoghi ricchi di stimoli artistici, come Firenze appunto.

Sensazioni estatiche, definite però anche patologiche, non a caso la Sindrome di Stendhal ha anche un altro nome: malattia da iperculturemia.

Dalla sua definizione, nel 1977, si è discusso molto in psicologia, e sono molti gli studiosi che affermano che in realtà non esista o che possa essere assimilata ad altre sindromi più generiche e ampie, come quella del viaggiatore.

La Magherini ha anche cercato di capire se alcune opere più di altre fossero responsabili dello scatenarsi della sintomatologia. Michelangelo è risultato essere l’artista che più di altri ha contribuito a scuotere gli animi e nello specifico il suo David. “Il David presenta delle caratteristiche eccezionali: in primo luogo possiede una bellezza anatomica straordinaria e poi, contemporaneamente, è un eroe biblico e, per la città, un eroe civico. Soprattutto, ciò che colpisce chiunque, è il lato estetico: è un bellissimo nudo e ciò riesce a influenzare l’animo di alcune persone rendendole in qualche modo eccitate, depresse e così via, influenzando perciò l’emotività dello spettatore, in un senso o in un altro”.

NEURONI SPECCHIO, CERVELLO E STENDHAL: COSA LI UNISCE?

Grazie alla scoperta dei neuroni-specchio, negli anni ’90 (ne abbiamo parlato in un precedente articolo: EMPATIA: L’ANTIDOTO A PREGIUDIZI, CONFLITTI E DISEGUAGLIANZA) , è più facile ora capire cosa succede nel cervello quando ci si trova di fronte un’opera d’arte. Nelle persone particolarmente sensibili sembra arrivino troppi impulsi visivi nello stesso momento, e che questi producano così un’intensa eccitazione, che si tramuta nei sintomi che abbiamo descritto.

Secondo il neurologo Semir Zeki, siamo dotati di un cervello visivo con cui possiamo cercare di spiegare e capire la creazione artistica. Allo stesso modo siamo dotati di un cervello artistico, prolungamento di quello visivo. Il nostro cervello non è un semplice spettatore passivo che si limita a registrare la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che vediamo di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte.

La risposta del cervello di fronte all’arte potrebbe non solo fornire spiegazioni maggiori sulla Sindrome di Stendhal, ma anche capire meglio il funzionamento del cervello, le cui logiche non sono ancora del tutto conosciute.

L’APPROCCIO PSICOANALITICO

Secondo l’approccio psicoanalitico chi soffre della Sindrome di Stendhal non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.

Un concetto, questo del viaggio sentimentale, già proposto da Laurence Sterne (1713-1768), precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo sentimental una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

COSA FARE SE VENIAMO CATTURATI DA STENDHAL…

Quando il problema persiste nel tempo, è consigliabile andare da un medico specializzato. Nella maggior parte delle volte, a quasi tutti è capitato di rimanere assolutamente affascinati dalla bellezza, fosse per un oggetto d’arte o un’aria musicale. Probabilmente chi arriva al punto di svenire e di provare malessere davanti alla bellezza in sé conserva una sensibilità estremamente accentuata che può risultare difficile da gestire.

Ma è pur vero che la maggior parte di coloro che intraprendono un viaggio in solitudine, in luoghi fortemente suggestivi e capaci di indurre forti reazioni emozionali, possono inciampare in alcuni sintomi propri della sindrome, pur senza conseguenze preoccupanti.

Anche lo scrittore russo Fëdor Michailovic Dostoevskij inciampò in questa sindrome, durante la visione del quadro di Holbein, un volto tumefatto, pieno di ferite sanguinolente. Insomma sono molti coloro che hanno conosciuto la sindrome.

Perdersi nella bellezza, posso sostenere da profano, che sia alla fine una fortuna. Non tutti sanno cogliere l’estetica e il vissuto di un’opera d’arte e se succede, senza lasciare strascichi ovviamente, non può che essere una esperienza arricchente. L’apertura di una porta sulla magnificenza che talvolta dimentichiamo che è solo lì ad aspettarci.

EMPATIA: L’ANTIDOTO A PREGIUDIZI, CONFLITTI E DISEGUAGLIANZA

A Londra esiste un Museo che permette di mettersi nei panni degli altri per capire cosa realmente provano e cosa sta alla base delle loro scelte e decisioni.

L’Empathy Museum, questo il nome, dispone fra gli altri, di un “A Mile in My Shoes” (un miglio nelle mie scarpe), dove si può camminare per un miglio con le scarpe di un altro per capirlo veramente.
Qui è possibile vedere il mondo con gli occhi degli altri, prendendo in prestito le scarpe di un’altra persona, da quelle del contadino a quelle del banchiere, passando per il rifugiato, la prostituta e il maratoneta Una volta scelte e indossate, i visitatori sono invitati a fare una passeggiata lungo le rive del Tamigi indossando una cuffia che racconterà la storia di chi è solito portarle.

L’empatia è un concetto molto importante, non a caso: “La ricerca neuroscientifica rivela che il 98% delle persone ha la capacità di provare empatia ma pochi raggiungono il pieno potenziale empatico – spiega uno dei fondatori Roman Krznaric – Oggi viviamo in un mondo iper-individualistico che sta erodendo rapidamente le nostra empatica. La nostra incapacità di apprezzare punti di vista, esperienze e sentimenti degli altri è alla radice del pregiudizio, del conflitto e della disuguaglianza. L’empatia è l’antidoto che ci serve”.

COS’E’ L’EMPATIA

Sono in molti a credere che sia una abilità delle sole persone sensibili. Non è così. L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro per comprenderlo senza lasciarsi trascinare nelle sue emozioni, riuscendo a sentire ciò che sente e nello stesso tempo a dare il giusto consiglio quando occorre, mantenendo lucida la mente. Per essere empatici occorre saper identificare e riconoscere le proprie emozioni e sapersi ascoltare. Se non si lavora su se stessi, se non ci si conosce sarà difficile distinguere le emozioni degli altri.

Essere empatici dunque non vuol dire lasciarsi trascinare dalle emozioni degli altri, e diventare tristi o arrabbiati se è lo stato d’animo dell’altro, altrimenti non riusciremo mai ad essere utili, e ad utilizzare questa grande capacità al meglio.

5 TIPI DI EMPATIA

Ci sono diversi tipi di empatia, non una sola e standard.
1) Empatia positiva: si ha quando una persona è in grado di partecipare pienamente alla gioia altrui perché è riuscita a cogliere la felicità che l’altra persona sta provando.

2) Empatia negativa: si ha quando una persona non riesce ad empatizzare rispetto alla gioia altrui, ad esempio a causa di esperienze negative vissute in passato che riemergono. Si tratta di una sorta di fuga dalla gioia degli altri.

3) Empatia interculturale:
– Empatia comportamentale: la capacità di capire i comportamenti di una cultura diversa, le cause e le catene di comportamenti correlati.
– Empatia emozionale: la capacità di percepire le emozioni vissute dagli altri, anche in culture diverse dalle proprie.
– Empatia relazionale: la capacità di capire la mappa delle relazioni delle persone e le sue valenze affettive nella cultura di appartenenza.
– Empatia cognitiva: l’abilità di capire le credenze di cui una cultura si compone, i valori, le ideologie, le strutture mentali che l’individuo culturalmente diverso possiede e a cui si ancora.

4) Empatia tra genitori e figli. L’empatia nasce nel bambino fin dai primi giorni di vita. I genitori possono aiutare i bambini a riconoscere le emozioni e a essere più empatici durante la crescita. E’ un processo bi-bidirezionale, sia il bambino sia il genitore ne può trarre vantaggio.

5) Empatia a scuola: per migliorare i rapporti tra studenti e insegnanti. Fruttuoso è l’esempio danese che ha introdotto l’empatia come materia scolastica. In questo modo ognuno ha maggiori strumenti per comprendere meglio gli altri e le loro emozioni.

COSA CI RENDE EMPATICI?

Cosa rende possibile l’empatia? I neuroni specchio, scoperta che si deve al neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti, nel 1992, aprendo il campo a ulteriori interessanti sviluppi sulla nostra evoluzione e sulle capacità intrinseche dell’essere umano.

Rizzolatti ha scoperto l’esistenza di particolarissimi neuroni che si trovano nelle aree cerebrali deputate ai movimenti e che si attivano quando si compie un qualsiasi gesto.

Perché sono tanto speciali?

La loro peculiarità è che si attivano non solo in chi compie quel determinato movimento ma anche in chi lo sta osservando. Osservando quello che fanno gli altri, abbiamo l’opportunità di capire le loro intenzioni, scoprire emozioni, provare empatia ma anche imparare.

Come ha spiegato lo stesso Rizzolatti: “Fino a non molti anni fa, si riteneva che il sistema motorio producesse solo movimenti. Noi, partendo da un approccio etologico, senza convinzioni a priori sulla funzione delle aree motorie, abbiamo scoperto che molti neuroni del sistema motorio rispondono a stimoli visivi. Se vedo una persona che afferra una bottiglia, colgo subito il suo gesto perché è già neurologicamente programmata in me la maniera in cui afferrarla. Si verifica una comprensione istantanea dell’altro, senza bisogno di mettere in gioco processi cognitivi superiori. In seguito abbiamo visto che la stessa cosa capita per le emozioni. Per esempio il disgusto. Somministrando a una persona uno stimolo olfattivo sgradevole, come l’odore delle uova marce, si attivano determinate parti del cervello. Una di queste è l’insula, un’area corticale che interviene negli stati emozionali. La sorpresa è stata che, se osservo qualcuno disgustato, si attiva in me esattamente la stessa zona dell’insula. Questo ci consente di uscire da un concetto mentalistico e freddo, riportando tutto al corpo. Io ti capisco perché sei simile a me. Non deduco, ma sento. C’è un legame intimo, naturale e profondo tra gli esseri umani. Il processo non è logico ma intuitivo”.

 

L’IMPORTANZA DEI NEURONI SPECCHIO

La rivoluzionaria scoperta di Rizzolatti ha aperto la strada a numerose altre ricerche che hanno messo in relazione i neuroni specchio con emozioni, apprendimento e altre condizioni e capacità tipicamente umane.
Questi particolari neuroni sono alla base dell’empatia, la capacità che hanno gli uomini di immedesimarsi nelle situazioni e solidarizzare con le gioie e i dolori degli altri. Questa dote sarebbe dunque possibile in quanto è il nostro stesso cervello ad essere in grado, tramite i neuroni specchio, di connettersi con quello degli altri.

Questo però non avviene sempre e comunque, a volte l’empatia non scatta e i motivi possono essere diversi, il più frequente è il fatto che la persona non riconosce se stesso nell’altro. Ad esempio, secondo Rizzolati, i neuroni specchio potrebbero attivarsi o meno a causa di fattori culturali.

Sostanzialmente l’essere umano è in grado di capire e intuire anche quello che non sente in prima persona ma che sta provando qualcun altro vicino a lui, di contro però la razionalità e l’azione dei retaggi culturali possono anche bloccare questo processo. Ciò ci fa capire perché è più facile che la nostra empatia si sviluppi verso famigliari, amici, concittadini o verso chi condivide con noi religione, idee politiche, passioni ecc. mentre tende a essere meno spiccata verso chi consideriamo per qualsiasi ragione “diverso”.

La scoperta dei neuroni specchio ha avuto ripercussioni anche sullo studio dell’autismo. Si ritiene infatti che le persone che soffrono di questa patologia non riescano a rapportarsi con gli altri e ad empatizzare proprio perché carenti di neuroni specchio.

Secondo il neuroscienziato indiano Vilayanur S. Ramachandran, i neuroni specchio sono stati fondamentali per la costruzione del nostro patrimonio culturale. Sarebbero stati proprio loro a donarci, nel corso degli anni, la capacità di imparare per imitazione, il linguaggio verbale e ovviamente l’empatia, tutte doti e condizioni che hanno reso possibile la, sia pur imperfetta, evoluzione umana.

TRE STRATAGEMMI PER MIGLIORARE LA CAPACITA’ EMPATICA

Il segreto è nell’ascolto. Banale? Assolutamente no, soprattutto perché se nessuno ci ha mai insegnato ad ascoltare, difficilmente sappiamo farlo nel modo giusto.
Ed è un gran peccato perché, come ha precisato Carl Rogers “coloro che sono stati ascoltati attivamente maturano sotto il profilo emotivo, si aprono all’esperienza, stanno meno sulla difensiva, diventano più accettanti e meno autoritari“.

Poiché non è mai tardi, possiamo cominciare ad ascoltare anche ora. Ecco i tre stratagemmi che suggeriva lo psicologo Thomas Gordon per migliorare l’ascolto attivo:

• posizionati a livello dell’altro (simbolicamente ma anche fisicamente sullo stesso piano)
• rallenta la comunicazione: aiuta ad uscire dagli automatismi reattivi, dà spazio alla riflessione e tempo per una percezione globale.
• fai ricorso in modo creativo all’esercizio della tartaruga: esprimi il tuo punto di vista e le tue posizioni solo dopo aver riassunto, in modo corretto, il punto di vista, le sensazioni e i dati prima esposti dall’altro interlocutore.

PERCHE’ CI AFFIDIAMO (insieme ad altri 13 milioni di italiani) A MAGHI, VEGGENTI E SENSITIVI…

In questo mondo di debiti, viviamo solo di scandali e ci arrabbiamo, preghiamo, ridiamo, piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi…

Cantava Antonello Venditti qualche anno fa. Difficile dargli torto, perché non solo li leggiamo gli oroscopi, ma addirittura ci crediamo e a loro ci affidiamo per prendere decisioni. Sono infatti 13 milioni le persone che solo in Italia si rivolgono a maghi, guru, veggenti e guaritori per conoscere il futuro, dare un senso al presente,  nonché  risolvere questioni che richiederebbero ben altri interventi, ad esempio di tipo medico o psicologico.

Tradotto in cifre un giro d’affari che la Codacons stima intorno agli 8 miliardi di euro l’anno, un vero e proprio business che miete vittime senza distinzione di sorta, età, condizione sociale e reddito.

PERCHE’ CREDIAMO AGLI OROSCOPI

Può essere affascinante pensare che esistano persone con doti eccezionali, capaci di sapere tutto di noi in poco tempo e soprattutto capaci di offrirci una visione radiosa del futuro oppure la soluzione magica e immediata ai nostri problemi.

Così affascinante da affidare a carte, dadi e profezie parte delle nostre decisioni e crederci così tanto, pur consapevoli della loro fallacia e inaffidabilità.

Perché è cosi difficile ignorarli?

La trappola di cui siamo vittime è detta effetto Forer (dal nome dello psicologo che già nel 1948 descrisse il fenomeno): porta a credere, accettare e dare l’approvazione a descrizioni psicologiche sommarie, spesso contrapposte, con dettagli vaghi e che si potrebbero applicare a un gran numero di persone. In parole semplici: ogni individuo posto di fronte a un profilo psicologico che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso, nonostante quel profilo sia generico, tale da adattarsi a più persone.

Per dimostrare le sue ipotesi Forer chiese ai suoi studenti di compilare il Diagnostic Interest Blank, un questionario dove venivano raccolte diverse info fra cui hobby, aspirazioni, caratteristiche a cui sarebbe seguita un’interpretazione qualitativa. Dopo una settimana, restituì un quadro della loro personalità, chiedendo di mantenere la riservatezza sulla propria valutazione: perché tutte le valutazioni erano identiche e consistevano in alcune delle seguenti frasi.

– Hai grande bisogno di piacere e di essere ammirato dagli altri

– Hai una grande quantità di doti non utilizzate, che non hai saputo sfruttare a tuo vantaggio

– Disciplinato e controllato al di fuori, tendi a essere internamente insicuro e preoccupato

– A volte hai seri dubbi e ti chiedi se tu stia prendendo la decisione corretta o stia facendo la cosa giusta

– Ti sei trovato a essere imprudente, parlando di te in modo troppo aperto

– A volte sei estroverso, affabile, socievole, altre sei introverso, diffidente e riservato

Dopo aver letto ogni personale descrizione, gli studenti dovevano indicare con un punteggio da 0 a 5 quanto si riconoscessero nelle frasi riportate. La media dei punteggi ottenuti fu 4.26. Questo fenomeno è stato replicato con altri esperimenti e si è potuto verificare che tra l’80 e il 90% delle persone considerano che le affermazioni generali siano molto precise in riferimento a loro stesse.

Certo è che tendiamo ad accettare quelle affermazioni nella stessa misura in cui desideriamo che queste siano reali e ci risultano sufficientemente positive e lusinghiere.

Va considerato che quando incontriamo una credenza che risolve una incertezza, questo ci predispone a confermare e dare per certa la stessa, scartando a priori ogni evidenza contraria. In questo modo si sviluppa una sorta di meccanismo automatico che consolida l’errore originale e conferisce una eccessiva attendibilità alla credenza.

VEGGENTI NORMALI DAI POTERI STRAORDINARI

Cosa spinge persone normali, istruite e con una buona posizione sociale a credere che questi veggenti possano avere dei poteri straordinari che le rendono capaci di vedere e parlare con i defunti, di comprendere una persona e di conoscere il suo passato, il suo presente ed il suo futuro attraverso la lettura della mano, i tarocchi o altre tecniche particolari?

Lo psicologo Richard Wiseman si è occupato di studiare questi fenomeni apparentemente paranormali. Dai suoi studi e dall’incontro con un presunto sensitivo, ha individuato alcune tecniche di base utilizzate da chi si definisce veggente per catturare l’attenzione delle persone, ottenere il loro favore e far credere di conoscere la loro vita ed il futuro.

6 TECNICHE USATE DAI MAGHI PER SAPERSI DIFENDERE

Fanno lusinghe. La maggior parte dei sensitivi tende a fare alle persone dei complimenti (“hai ottime capacità”, “sei un ottimo osservatore”, “sei capace di gestire le situazioni critiche”, “sei attento ai dettagli”) per soddisfare il bisogno umano di essere apprezzati. Questo espediente può indurre le persone ad avere un atteggiamento più benevolo nei confronti del mago e ad abbassare la propria capacità critica.

Sfruttano il meccanismo psicologico della memoria selettiva. La memoria selettiva ci porta a ricordare di più le cose che sono congruenti con le nostre aspettative e con il nostro modo di essere. I maghi fanno molte affermazioni che si riferiscono a caratteristiche diverse e spesso contrapposte: “alcune persone ti definiscono timida, ma non hai paura di dire la tua”, “sei una persona precisa, ma anche disorganizzata in alcune situazioni”-. Le persone sono portate a ricordarsi maggiormente ciò che rispecchia maggiormente la loro personalità e la loro storia e a dimenticare il resto.

Utilizzano la creazione di senso. Siamo portati ad interpretare gli stimoli, ad attribuire un significato specifico anche a informazioni generiche ed ambigue ed in base a questo fenomeno molte affermazioni fatte dai sensitivi possono apparire riferite a sè. Ad esempio, se si parla di “cambiamento in campo immobiliare”, questo potrebbe riferirsi al proprio trasloco o al trasloco di un amico o di un familiare, alla possibilità di ereditare un immobile, alla possibilità di cercare una nuova casa in affitto o di acquistarne una nuova. Inoltre, questo cambiamento potrebbe riferirsi al presente, ma anche al passato e al futuro. Insomma, si apre un ventaglio di possibilità così ampio nel quale ognuno, riflettendo, potrà individuare ciò che si riferisce a sé.

Prestano attenzione alle reazioni delle persone. Solitamente i sensitivi toccano vari argomenti e fanno vari commenti e, studiando le reazioni delle persone, arrivano ad approfondire i temi per loro importanti e a riproporre le giuste informazioni. Possono iniziare accennando possibili problemi di salute, economici, amorosi per osservare quale tema interessa alla persona. Arrivano a capirlo osservando piccoli dettagli. Si può trattare, ad esempio, del fatto che la persona annuisce, anche lievemente, di piccoli sorrisi o espressioni di tristezza, di un cambiamento repentino di espressione o della postura.

Si servono dell’illusione dell’unicità. Spesso tendiamo a considerarci unici e speciali, con caratteristiche fuori dal comune e particolari. In realtà siamo tutti prevedibili. In base a questo principio i maghi spesso propongono affermazioni che sono valide per la stragrande maggioranza delle persone.

Utilizzano scappatoie. Naturalmente può capitare anche ai sensitivi di fare affermazioni sbagliate e a questo punto cercano delle scappatoie. Una delle più diffuse è quella di ampliare un’affermazione giudicata sbagliata in modo da renderla ancora più vaga e, quindi, potenzialmente riferibile ad una molteplicità di situazioni, aumentando così la probabilità di individuare qualcosa che possa riguardare la persona. Ad esempio, se il sensitivo dice che nella vita della persona c’è qualcuno con un nome che inizia con la B, ma non riceve conferma, potrebbe dire che in realtà potrebbe trattarsi anche di una V. Un’altra tecnica consiste nell’invitare la persona a riflettere su quanto detto perchè probabilmente l’informazione è corretta, ma riguarda qualcosa che in questo momento non le viene in mente e, solitamente, “chi cerca trova”. Infine, se si fanno affermazioni più specifiche che si rivelano errate, si può utilizzare lo stratagemma di dire che si stava parlando in modo metaforico. Ad esempio, se si dice ad una persona che ama viaggiare e questo non è vero, le si potrebbe dire che il viaggiare va inteso metaforicamente, nei termini di “viaggiare con la fantasia”, “essere aperta ai cambiamenti”, “ricercare nuovi stimoli”.

Il consiglio dunque che mi sento di dare non è quello di smettere di leggere l’oroscopo, ma di consultarlo. Il fato non ha memoria, come i dadi e la roulette. Dunque perché privarci di una scelta consapevole, che seppur si dimostrerà errata, ci avrà permesso di essere noi i veri artefici del nostro destino?

Oltre che farà sicuramente bene anche al nostro portafoglio…

IL MONDO E’ UN POSTO PERICOLOSO… MA ANCHE NO!

C’è chi afferma che si tratta di un falso problema e che mai il mondo è stato luogo più sicuro; chi invece va alla continua ricerca di dati che testimoniano il contrario, ossia che furti, rapine, borseggi, estorsioni e sequestri siano in continuo aumento. Da qualsiasi parte ci si schieri, una cosa è certa: la sicurezza personale è una delle preoccupazioni più diffuse e su cui tutti si sentono in dovere di dire la loro.

Ma chi, fra le due fazioni, ha ragione?

Dai numeri delle Forze dell’ordine analizzati da Info Data, relativi al luglio-agosto 2017, è emerso che omicidi, furti e rapine si sono ridotti, rispetto gli stessi mesi del 2012, del 42,5 per cento. Le rapine invece sono scese del 35,8 per cento. Eppure nonostante i numeri evidenzino una contrazione, i reati continuano a spaventarci.

LA SICUREZZA OGGETTIVA NON ESISTE

Per comprendere il perché i dati pur essendo incoraggianti, hanno poca presa sulla nostra sensazione di sentirci al sicuro, occorre fare una differenziazione fra sicurezza oggettiva e soggettiva.

Non esiste la sicurezza oggettiva, ma ne esiste una reale ed una percepita; e non necessariamente le due coincidono”, detto in altre parole “la sicurezza di un uomo non dipende da fattori necessariamente reali e un soggetto potrebbe sentirsi in pericolo anche dove non lo sia concretamente e reagire quindi ad un’inesistente minaccia come altrettanto potrebbe percepire di essere al sicuro dove invece una minaccia esiste ed agire in modo sconsiderato ed imprudente”. Si legge nel libro Difendere a Prescindere, edito da Paesi Edizioni.

Insomma pur avendo meno pericoli reali che minacciano la nostra sopravvivenza e quella della nostra specie, oggi rispetto i nostri antenati tendiamo a considerare minacciose anche quelle situazioni che tali non sono. Fino a qui non sarebbe un gran male, ma la cose si complicano quando mettiamo in atto azioni in base a quanto (erroneamente) percepito. E capite bene che se una situazione non a rischio viene percepita come pericolosa, i comportamenti che metteremo in atto sono ben diversi da quelli che attueremmo se invece ci sentissimo al sicuro.

SEI PROPENSO O AVVERSO AL RISCHIO?

Il pericolo da come viene percepito attiva sostanzialmente due tipi di comportamenti: lo si cerca o lo si rifugge, ossia si è propensi o avversi. Chi ha propensione al rischio ha una soglia di attivazione diversa rispetto gli stimoli e tende a cercare emozioni e rischi maggiori o ad essere meno sensibile alle punizioni. Questa propensione a cercare stimoli nuovi spesso annebbia la valutazione dei rischi.

Tomasz Zaleskiewicz, nel 2001, ha proposto una distinzione in ulteriori due sottotipi di propensione del rischio: non strumentale e associato a stimolazione. L’assunzione del rischio è una tendenza specifica del campo economico e ci aiuta a comprendere i diversi modi in cui la percezione del rischio può operare rispetto alla nostra vita. Il tipo non strumentale è associato al campo degli investimenti economici e a caratteristiche di personalità quali un orientamento al futuro, pensiero razionale, impulsività e propensione a rischiare. L’assunzione del rischio associata a stimolazione, sembra essere associata a una preferenza per il prendere rischi in ambiti dello svago, rispetto all’etica e alla salute e del gioco d’azzardo. Inoltre, è associata a caratteristiche di personalità quali l’orientamento al momento, la ricerca di attivazione, l’impulsività e una forte ricerca di sensazioni stimolanti.

L’avversione al rischio è invece un tratto di personalità che può comprensibilmente risuonare come maggiormente conforme a una vita funzionale. Si tratta della preferenza per un’opzione certa (anche se di meno valore) rispetto a una variabile, a qualcosa di incerto. Tuttavia, tali situazioni sono molto rare nella quotidianità. L’Anas nel 2004 ha pubblicato un’interessante ricerca sulle diverse tipologie di guidatori. Questa, ha dimostrato come l’impatto di stress e stanchezza possano influenzare lo stile di guida e la probabilità di incidenti.

I COMPORTAMENTI ALLA GUIDA

Il campione della ricerca era composto da 60 persone coinvolte in un incidente, con necessità di cure ospedaliere superiore alle 24h. Il campione era formato da residenti a Roma, Milano, Padova e Napoli. I risultati hanno delineato 4 stili di guida degli italiani:

  1. Travellers. Coloro abituati a lunghi spostamenti in auto da soli o in compagnia. La ricerca definisce la guida di tale categoria “rilassata e diligente”.
  2. Heavy Users. Si tratta di persone che sono costrette a passare la maggior parte della loro vita in macchina, spesso per motivi lavorativi. La loro guida viene descritta come “incline a violare i limiti di velocità e all’irrequietezza alla guida”.
  3. Frequent Movers. Sono le persone abituate a usare diverse tipologie di mezzi di trasporto privati (es., macchina, scooter, etc.) per spostamenti all’interno della città. Tendono a mostrare un tipo di guida “poco attenta e intollerante al traffico”.
  4. Road Runners. Tale categoria è composta da guidatori di mezzi privati ad alta velocità che ostentano una guida aggressiva, spesso “arrogante”.

Questo tipo di ricerca evidenzia una correlazione tra le tipologie di guida, il diverso vissuto, le abitudini quotidiane e il tipo di uso del mezzo privato. In parte, evidenzia anche come, caso dei travellers escluso, il rischio venga sottovalutato, se non ignorato, a fronte delle esigenze ed abitudini personali.

E’ TUTTA COLPA DELLE TRAPPOLE MENTALI

A spiegare in modo scientifico il perché tendiamo a prendere decisioni più o meno rischiose sono stati il premio Nobel Daniel Kahneman e il collega scomparso prematuramente Amos Tversky, nella loro  teoria del prospetto.

L’evoluzione ci ha portato a ragionare per euristiche, una sorta di “scorciatoie di pensiero”: pattern di pensiero che si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione per rispondere alla necessità di trovare dei metodi veloci di risposta alla maggior parte dei problemi quotidiani. Le euristiche non sono negative. L’errore è la non consapevolezza di quanto queste possano essere automatiche. Tale inconsapevolezza porta all’incapacità di riconoscerle e di valutarne un uso adeguato.

Bias ed euristiche possono quindi indurci in errore e farsi percepire il rischio e la pericolosità di una situazione in modo differente rispetto alla realtà di quella situazione.

  • Il bias dell’ancoraggio: decidere assumendo come punto di confronto un valore delineato in modo arbitrario, con nessuna rilevanza oggettiva per la decisione;
  • La fallacia del gambler: sovrastimare la salienza di un evento, positivo, passato e assumere che questo si ripeta nel tempo;
  • Il bias del presente o hyperbolic discounting: assumere che delle ricompense immediate siano di maggior valore rispetto a ricompense differite nel tempo, ignorando il valore assoluto di queste;
  • Il bias dell’ottimismo: ignorare o sottostimare la possibilità che degli eventi negativi possano riguardarci in prima persona. Tendiamo a non pensare che eventi come il divorzio, la perdita del lavoro, un incidente stradale possano capitare proprio a noi.

Questi tipi di bias cognitivi e una sovrastima delle proprie capacità si frappongono spesso rispetto a una minimizzazione dei rischi, nella vita di tutti i giorni. Ritorniamo in auto e traduciamo i bias in esempi pratici:

“La lunghezza del percorso potrebbe essere assunto come una variabile fondamentale per la valutazione del rischio di incidente, ecco quindi la tendenza a non mettere la cintura per percorsi brevi.”

“Da giocatori, potremmo assumere che il fatto di aver sorpassato spesso in passato nella corsia di emergenza senza incorrere in sanzioni o pericoli sia ormai trasformabile in un vero e proprio pattern.”

“Uscire il prima possibile dal traffico può essere percepito come più allettante rispetto a una guida sicura e nel rispetto degli altri, un tipo di comportamento che ci darebbe delle ricompense oggettive e reali sul lungo termine oltre che aumentare il livello di sicurezza personale e degli altri.”

“Sentirci particolarmente capaci perché capita che nel sorpassare altre macchine, pur non mettendo la freccia, riusciamo nel nostro intento senza creare scompenso è un elemento sufficiente per sentirci invincibili?”

Si tratta di pensieri comuni che attraversano la mente della maggior parte delle persone, in modo più o meno conscio.

Una volta constatato che a fronte di un rischio oggettivo la valutazione e la rappresentazione di esso può essere soggettiva e compreso come le persone possano avere attitudini differenti, è bene cogliere ciò che viene dopo. Siamo esseri fallaci e fallibili, tuttavia stiamo sviluppando da secoli una conoscenza di noi stessi e della realtà che ci circonda. In gran parte tale conoscenza ci può portare ad avere una maggiore padronanza dell’ambiente che ci circonda. Assunta tale consapevolezza, quindi, è bene affrontare le sfide quotidiane sfruttando al meglio le nostre capacità e le nostre conoscenze.

Senza dimenticare che il rischio percepito non necessariamente corrisponde alla realtà oggettiva. Quindi se il pericolo non è imminente, vale la pena esaminare i vari elementi che portano a considerare pericoloso un ambiente  o una situazione che si sono dimostrate invece sicure, così che la prossima volte incappando in un contesto similare non ci si farà più travolgere dall’ansia ingiustificata, dalla frenesia o si sarà più bravi a mitigare i danni di eventuali accadimenti negativi.

IL PIACERE NON E’ LA FELICITA’: A COSA REALMENTE SERVONO DOPAMINA E SEROTONINA

Per secoli, i filosofi hanno tentato di interpretare la natura della mente, poi sono arrivate le neuroscienze che, occupandosi di cervello, hanno accumulato una grande quantità di conoscenze empiriche, svelando meccanismi sconosciuti che ci stanno aiutando a spiegare il comportamento umano e a migliorare la nostra vita.

Abbiamo così avuto modo di renderci conto di quanto il cervello sia un organo spettacolare che agisce in base a schemi complessi e che “predilige una condizione di equilibrio stabile e di coerenza. Il comportamento umano è imprevedibile e fatto di mille sfumature”, per usare le parole del divulgatore scientifico David Di Salvo.

IL CENTRO DELLA RICOMPENSA

Molecola di Dopamina

E ha necessità di emozioni positive così come di quelle negative. Negli articoli precedenti abbiamo affrontato il tema della paura, della rabbia, del conflitto, ma non dobbiamo dimenticare che nel cervello c’è anche il centro della ricompensa, che ha la funzione di rinforzare i comportamenti più vantaggiosi per l’individuo. Il neurotrasmettitore della ricompensa è la dopamina, una sostanza importante, ma anche un potente nemico di gratificazioni inappropriate, che danno luogo a comportamenti compulsivi e a forme di dipendenza patologica, come avviene nel caso di droghe, sesso, rete o gioco d’azzardo.

Il cervello acquisisce una condizione di felicità se riesce a vivere in uno stato di certezza e di stabilità emotiva. Ciò fa emergere la sua tendenza a cercare prove che confermino le proprie idee e a ignorare quelle che le contraddicano. E’ una disposizione battezzata dai neuroscienziati bias di conferma. Cercare prove o giustificazioni nel convalidare la nostra posizione e contrastare quelle che la confutano è un meccanismo cerebrale che avviene e attuiamo inconsapevolmente di continuo.

Ma perché impegnarsi tanto per dimostrare l’ autenticità di una cosa che invece si è dimostrata essere falsa? Cercare di aver ragione pur di fronte ad evidenti falsità è una condizione emotiva che produce nel cervello una scarica neurochimica di gratificazione. Avere l’ ultima parola anche in questioni banali è una cosa che al nostro cervello piace all’inverosimile. Perché ogni comportamento di “chiusura”, di “resistenza mentale” rappresenta una “ricompensa” una soddisfazione, un premio psicologico. Una scossa di certezza: “contrasto, nego, rifiuto: dunque sono, esisto”.

Il ruolo della dopamina è ancora più interessante di così.

DOPAMINA, CORTISOLO E SEROTONINA

Molecola di Serotonina

Robert Lustig è un endocrinologo americano, professore all’Università della California a San Francisco. Ha scritto un libro: The Hacking of the American Mind dove spiega le basi biochimiche dei comportamenti: cosa succede nel cervello quando, ad esempio, ci si trova a Parigi in agosto, in casa si soffoca di caldo, sarebbe meglio bere acqua, invece si scende in strada per comprare un gelato alla nocciola e nostra moglie o nostro marito ci ricorda gli etti, se non i chili in più che già abbiamo in dotazione e non siamo riusciti a smaltire per la fatidica prova costume. Funziona così: la dopamina spinge alla ricerca del sollievo e di un piacere immediato, il gelato. Alla prima leccata, la beta-endorfina fornisce una sorta di orgasmo alimentare, ma il commento coniugale scatena il cortisolo e lo stress: a quel punto niente può impedire di buttarsi anche su un croissant al cioccolato.

È un libro uscito un paio di anni fa negli Stati Uniti che contrappone il piacere immediato – fornito da droghe, zucchero, alcol, tabacco, like e retweet sui social – alla felicità. Indulgere nella nevrosi della micro-ricompensa può generare dipendenza e depressione perché ci si assuefà in fretta, le dosi non sono mai abbastanza e si cade quindi in depressione. Soprattutto, la ricerca del piacere allontana la felicità intesa come appagamento.

E poi c’è la serotonina che è determinante durante l’innamoramento. Piacere e felicità sono due passioni positive, i moventi della vita, solo che dovrebbero stare in equilibrio e collaborare. Il piacere è il dominio della dopamina, la felicità è il regno della serotonina. Ma secondo Lustig l’America e l’Occidente, complice la tecnologia, sono sempre più schiavi della prima.

La dopamina è un altro neurotrasmettitore in grado di alimentare in noi il desiderio di novità e di farci provare la sensazione di piacere di fronte ad alcune situazioni, come durante il rapporto sessuale, dopo un lauto pranzo e dopo l’assunzione di cocaina oppure di anfetamine. La dopamina viene definita la sostanza chimica del piacere. Attiva una serie di modelli comportamentali. Motiva gli esseri umani e gli altri mammiferi a ricercare quello che li fa stare bene e rilascia la sensazione di piacere quando l’hanno trovato.

LA DIFFERENZA FRA PIACERE E FELICITA’

«Ci sono sette differenze fondamentali», dice Robert «il piacere è effimero mentre la felicità durevole, il piacere è viscerale e aumenta la pressione e il battito cardiaco mentre la felicità è più spirituale e rilassante, piacere è prendere (lo vediamo nello shopping o nel gioco d’azzardo) mentre alla felicità si arriva con il dare; il piacere può essere ottenuto con sostanze legali o non mentre la felicità è darsi obiettivi e raggiungerli, il piacere è una condizione di solitudine mentre la felicità si sperimenta in società, gli eccessi del piacere provocano dipendenza mentre la felicità no».

IL CERVELLO E’ PROGRAMMATO PER PROVARE EMOZIONI

Il nostro cervello è programmato dunque geneticamente per provare emozioni in situazioni esistenziali nelle quali si trova ad agire. Anzi, egli è programmato dalla natura, come fosse una vera e propria risorsa evolutiva, per trarre piacere dalle azioni che compie, evitando quelle nelle quali il piacere non si prova. Il cervello è in grado di distinguere il piacere dal non-piacere, mentre non distingue il nocivo dall’innocuo, altrimenti sarebbe per tutti i fumatori facile smettere di fumare. Soprattutto il piacere immediato, il bisogno di ricompensa, è il campo della dopamina, mentre la felicità, l’appagamento, quello della serotonina. Sono entrambi due neuro-trasmettitori, ma non potrebbero funzionare in modo più diverso. Possiamo avere piacere e felicità solo se riusciamo a farli lavorare insieme.

Ma ciò non accade. A causa della moderna società che stimola continuamente i meccanismi della ricompensa immediata, del piacere a corto raggio. I circuiti cerebrali sono occupati dalla dopamina, e sempre meno disponibili per produrre serotonina. Per esempio l’abuso delle tecnologie scatena dopamina e riduce la serotonina. «Il bisogno di controllare le e-mail, i messaggi, le notifiche, la tendenza all’accumulo di follower o di like: qui si vede bene la dipendenza psicologica provocata dal bisogno di ricompensa immediata».

La felicità, che è un insieme di emozioni gratificanti e un desiderio di novità, perché la ricerco per provare nuove emozioni rispetto a quelle che già provo, è anche una sorta di innamoramento, perché tendo a confonderla con il piacere fisico che può procurarmi, desiderando mantenerla nel tempo il più a lungo possibile. E questo mantenersi nel tempo implica sia la ricerca di novità che la stabilizzazione delle conquiste piacevoli che ho ottenuto nel tempo.

Anche le religioni, pur basandosi su idee diverse, hanno un denominatore comune: un luogo dove i fedeli possono riunirsi, che sia la chiesa, la moschea o il tempio. La religione genera empatia e serotonina, capace in effetti di generare felicità. Tutta la nostra società è fondata sul meccanismo della soddisfazione immediata e della dipendenza, funziona con le bevande gassate, i dolci, le sigarette, i telefonini. L’abuso degli smartphone è un’altra tendenza contemporanea a lasciarsi irretire dalla gratificazione istantanea.

COME DIFENDERSI DALL’IRRUENZA DELLA DOPAMINA

Le 4 C

Non è facile uscire dalle dipendenze e dalla ricerca del piacere immediato, ne sanno qualcosa le persone che vanno nei centri di recupero per sottrarsi all’alcool o alle droghe.

Il primo passo per guarire è riconoscere di avere un problema. Poi si può provare qualcosa. Per aspirare alla felicità senza accontentarsi del piacere immediato qualcuno suggerisce le quattro C: Connect, cioè privilegiare la connessione sociale tra persone reali; Contribute, ovvero altruismo, volontariato, filantropia; Cope, ovvero fare attenzione alle ore di sonno e dedicarsi alla meditazione; e Cook, cioè cucinare per sé stessi, gli amici, la famiglia. Quando si cucina si è concentrati. Fa bene tutto quello che riduce il multitasking e l’iperstimolazione.

HIKIKOMORI: LA VITA IN UNA STANZA

Fino a qualche anno fa erano soprattutto giovani, oggi ad essere colpite sono anche persone di mezza età che, a carico di genitori anziani, né studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata chiusi in casa. A stento parlano con genitori, amici e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della rete e dei social con profili fittizi, unica finestra con la società che hanno abbandonato.

Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione e mezzo di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi. Nel nostro Paese l’associazione Hikikomori Italia parla di almeno 100 mila casi.

Da uno studio commissionato da una agenzia governativa a fine 2018, su individui fra i 40 e i 64 anni, è risultato che più di 600 mila persone possono essere considerate hikikomori, più delle 541 mila fra i 15 e 39 anni. L’80 per cento sono maschi, mentre il 46 per cento di questi reclusi per scelta ha dichiarato di vivere in questa situazione da almeno 7 anni, e il 34 per cento di loro dipende economicamente dai genitori.

I TRE STADI

I stadio. La persona comincia a percepire la pulsione all’isolamento sociale, senza però riuscire a elaborarla consciamente. Si accorge di provare malessere quando si relaziona con altre persone, trovando maggiore sollievo nella solitudine e nelle relazioni virtuali. I comportamenti che caratterizzano questo stadio sono: il rifiuto saltuario di andare a scuola o al lavoro utilizzando scuse di qualsiasi genere, il progressivo abbandono di tutte le attività “parallele” che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno, una graduale inversione del ritmo sonno-veglia e la preferenza per attività solitarie.

II stadio. Si comincia a elaborare consciamente la pulsione all’isolamento e ad attribuirla razionalmente ad alcune relazioni o situazioni sociali. È in questa fase che si cominciano a rifiutare le proposte di uscita degli amici, si abbandona progressivamente la scuola e il lavoro, si inverte totalmente il ritmo sonno-veglia e si trascorre la quasi totalità del proprio tempo chiusi in camera dedicandosi ad attività solitarie. I contatti sociali con il mondo esterno si limitano ora quasi esclusivamente a quelli virtuali, coltivati attraverso il web soprattutto utilizzando chat, forum e giochi online. Viene mantenuto anche un rapporto (spesso conflittuale) con gli altri membri della famiglia.

III stadio. La persona decide di abbandonarsi completamente all’isolamento sociale e si allontana progressivamente anche da genitori/famiglia e dalle relazioni sviluppate in rete. Quest’ultime diventano fonte di grande malessere, in un modo simile alle relazioni sociali canoniche. L’hikikomori sprofonda in un isolamento totale.

Ovviamente queste fasi non sono rigide, i vari stadi si alternano fra ricadute o miglioramenti e peggioramenti.

LE 4 TIPOLOGIE DI HIKIKOMORI 

Maïa Fansten, sociologa francese che da anni si occupa di isolamento sociale, ha proposto una classificazione delle diverse tipologie, prendendo come riferimento le differenti motivazioni che possono trovarsi alla base della scelta del ritiro.

Ritiro alternativo. Questa tipologia di hikikomori decide di isolarsi perché non accetta di adeguarsi alle dinamiche tipiche dell’esistenza moderna. Si tratta di una sorta di ribellione nei confronti della società, che viene vissuta in modo particolarmente negativo e come un’entità opprimente, volta a limitare la propria libertà personale.

Ritiro reazionale. Gli hikikomori che fanno parte di questa categoria vivono, o hanno vissuto, in contesti sfavorevoli che hanno contribuito ad aggravare una tendenza all’isolamento già preesistente. Spesso ricollegano la loro scelta di ritiro a un evento considerato come particolarmente traumatico, avvenuto all’interno del contesto famigliare, oppure nell’ambiente scolastico o in quello sociale e lavorativo. Tutto ciò contribuisce a generare forti reazioni d’ansia, vergogna e stress, che vengono generalizzate a tutti i contesti sociali e compromettono fortemente la loro capacità di stringere relazioni sociali soddisfacenti.

Ritiro dimissionario. Riguarda quegli hikikomori che non riescono a sostenere le pressioni di realizzazione sociale derivanti dalle aspettative genitoriali o, più in generale, dalla società. Questi hikikomori semplicemente decidono di “non giocare”, rifiutandosi di perseguire una qualsiasi carriera scolastica, lavorativa o sociale. Si sentono talmente oppressi dalle aspettative altrui che decidono di nascondersi, alleviando così, almeno in parte, tale sofferenza. Sembra essere proprio questa, ovvero la grande competizione sociale, una delle principali cause della rapida diffusione dell’hikikomori in Giappone.

Ritiro a crisalide. In questo caso l’hikikomori cerca nell’isolamento una fuga da quelle che sono le responsabilità e le incombenze dell’età adulta. Sente di non avere le competenze per affrontarle e questo sentimento provoca in lui una grande paura. L’esistenza viene approcciata con un appiattimento sul presente, mentre i pensieri sul futuro, fonte di grande ansia, vengono rifiutati ed evitati. In questo modo, è come se l’hikikomori volesse congelare il tempo, adottando consciamente o inconsciamente delle strategie mirate a tale scopo (ad esempio, invertendo il ritmo sonno-veglia per non soffrire la sensazione di essere inattivo durante il giorno).

LA STORIA DI MARIO, GIULIO E MARIA…

L’odissea di Mario, non ha né un inizio né una fine ben precisi. “La cosa peggiore di quel periodo è l’assenza di ricordi, di cose memorabili. Era come se non esistessi”. Di certo c’è solo che i suoi genitori, oberati di lavoro, lo lasciavano da solo molte ore al giorno già quando era poco più di un bambino. E che poi, a 16 anni, una delusione amorosa lo ha “devastato completamente”, annientando qualsiasi capacità di fidarsi delle altre persone: “Da quel momento ho smesso di uscire. Sono andato a casa, mi sono chiuso in camera e là sono rimasto”.

In quella stanza Mario rimane per otto anni. Le sue giornate si susseguono uguali. Leggere diventa il suo quotidiano. Divora tutti i libri che gli capitano tra le mani.  Dopo tutti quegli anni, Mario comincia finalmente a intravedere la luce in fondo al tunnel, grazie all’aiuto dell’associazione Hikikomori Italia, fondata nel 2013 dal dottor Marco Crepaldi.

E poi, c’è Giulio, il nome è di fantasia. Che sulla sua pagina social racconta la sua vita. Il video dura venti minuti. Dalle sue labbra non esce parola. Rimane in silenzio fissando la telecamera del cellulare. La scritta: “Cerco una compagna, non posso parlare”. Basta scorrere la bacheca Facebook per scoprire che lo fa ogni settimana e che ogni settimana non riceve risposta. Giulio ha 35 anni. Non esce di casa, non ha contatti con l’esterno e non lavora.

Come lui Maria, stessa necessità di rimanere prigioniera della sua camera. Digitando, da chissà quale città, pretende sostegno. Così continuando per altri centinaia di account, tutti membri della chat Hikikomori Italia. “Ho deciso di mollare completamente la vita sociale all’età di 14 anni – confida un utente – e ora ne ho 25. Da allora passo tutto il mio tempo al computer videogiocando o semplicemente navigando. Ho deciso di spostarmi nella realtà virtuale”.

Storie che si sovrappongono raccontate nella chat come nel forum: «La mia massima conquista – ammette una ragazza – è uscire in giardino, al mattino prima che tutti si sveglino, o di notte. Per me basta che non ci sia nessuno. È come scalare l’Everest ogni volta».  Poi c’è Anna, 46 anni, da due anni non mette piede fuori dal letto: «È una condizione triste, ma non posso fare altrimenti». I “motivatori”, chi ce l’ha fatta, si attivano ma dopo poche frasi iniziano gli attacchi reciproci e Anna decide di uscire dalla chat. Torna nel suo letto, questa volta lontana dai giudizi.

IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA SOLITUDINE

Uno dei principali fattori di rischio è l’allontanamento progressivo dalla società. Spesso gli amici, anche quelli di vecchia data, vengono rifiutati in modo apparentemente ingiustificato. Questo può essere considerato l’ultimo step dell’hikikomori, quello più grave e dal quale è più difficile tornare indietro. Perché la solitudine genera solitudine, generando un vero e proprio circolo vizioso.

A supporto di questa tesi un recente studio condotto in Belgio che ha coinvolto 730 adolescenti.
Ai partecipanti sono state presentate due diverse tipologie di scenario:

  • Scenario di inclusione sociale: “Viene inaugurata una nuova panineria in città. Alcuni dei tuoi compagni di classe ci andranno per pranzo e ti hanno chiesto se vuoi unirti a loro.”
  • Scenario di esclusione sociale: “Vedi su Facebook una foto di un compleanno di classe al quale tu non sei stato invitato.”

I partecipanti che precedentemente erano stati classificati come “più solitari” hanno vissuto la situazione di esclusione sociale in modo maggiormente negativo rispetto agli altri (manifestando alti livelli di rabbia, delusione e gelosia), attribuendo tale esclusione alle proprie caratteristiche personali (aspetto, carattere, ecc.). Ancor più interessanti, tuttavia, sono state le reazioni di questi ragazzi nella situazione di inclusione sociale (ovvero quando erano stati effettivamente invitati dagli amici). Anche in questo caso l’entusiasmo mostrato è risultato molto basso, semplicemente perché l’invito è stato vissuto come frutto del caso o comunque legato a un secondo fine.

LA SOLITUDINE GENERA SOLITUDINE

Questo sembra essere un meccanismo mentale che si verifica spesso negli hikikomori, persone che hanno un’alta considerazione di sè, ma che tendono a sviluppare una forte sfiducia nei confronti degli altri. Così, anche quando ricevono inviti spontanei e sinceri, tendono a interpretarli con sospetto, facendo pensieri del tipo: “Lo ha fatto solo perché si sentiva in obbligo, non gli interessa veramente se vengo anche io”, oppure “Vogliono solo prendersi gioco di me.”

In riferimento a questo meccanismo rafforzativo della solitudine, Weeks Molly, coautrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Neuroscienze della Duke University, spiega: “Questi risultati ci mostrano che gli adolescenti più solitari sembrano rispondere alle situazioni sociali in modo tale da perpetuare la propria solitudine. La ricerca futura dovrebbe indagare quando e come la solitudine temporanea diventa solitudine cronica e capire come si possa intervenire per evitare che ciò accada.”

PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE

Questo detto, seppur abusato, continua ad essere il consiglio migliore. Dalla sindrome si può uscire con l’aiuto di psicoterapeuti e psichiatri, ma molto si può fare già in termini di prevenzione.

  • Quando ci si accorge che il proprio figlio non vuole andare a scuola, occorre capire che potrebbe non essere un capriccio ma la manifestazione di un disagio. In questo caso non va riportato subito a scuola, ma bisogna iniziare ad allentare la pressione: il ritorno a scuola è l’obiettivo, non lo strumento.
  • Sospendi il giudizio sulla sua visione della vita e vai incontro a tuo figlio, comprendendo da dove origina la sua ansia, cioè nella difficoltà di stare nell’ambiente sociale della scuola. Spesso questi ragazzi diventano anche vittime di bullismo proprio per la loro diversità dal comune sentire.
  • Invita i ragazzi a coltivare interessi e passioni, insegnando ad accettare i complimenti come le critiche, impedendo che si fissino su modelli troppo alti e distanti, spesso inesistenti, altrimenti si vedranno sempre, inevitabilmente, inadeguati.
  • Non privare tuo figlio del computer, ma cerca di mantenere il più possibile una comunicazione aperta con lui
  • Non aver paura a rivolgersi a specialisti che possano aiutarti ad affrontare il problema

AL VOLANTE E A DIGIUNO DIVENTIAMO TUTTI PIU’ AGGRESSIVI… VI SIETE MAI CHIESTI PERCHE’?

Quando siamo alla guida di un’auto, diventiamo più aggressivi e talvolta anche inaspettatamente violenti. Vi siete mai chiesti perché?

Lo stress al volante e il conseguente sfogo con reazioni aggressive è tra i casi più studiati dagli etologi di violenza urbana. Tanto che è stato dato un nome tecnico alla questione: road rage (rabbia da strada). Secondo gli psicologi evoluzionisti, questo tipo di collera segue uno schema: inizia sempre con insulti e minacce verbali e gestuali, spesso enfatizzati da fari e clacson.

Per fortuna, solitamente, ci si ferma qui. L’auto è una scatola protettiva, e visto che gli esseri umani rifuggono il contatto con gli sconosciuti, difficilmente scendono dal veicolo. Ma ci sono situazioni limite: una di queste è la violazione delle norme implicite della convivenza cittadina. Ci si può infuriare, per esempio, per un parcheggio rubato e perché la mancata cortesia da parte dell’altro automobilista viene vissuta come un’ingiustizia che va vendicata.

Nella nostra specie la vendetta non è solo punitiva ma è spesso soprattutto riparativa: serve a ricomporre l’ordine sociale. E per questo non si esita a metterla in atto, costi quel che costi.

QUANTO E’ DIFFUSA LA ROAD RAGE

Secondo studi internazionali oltre il 50% degli automobilisti è stato coinvolto in almeno un episodio di rabbia al volante. E anche se il 70% di coloro che li hanno provocati è consapevole di aver generato problemi a guidatori o passanti, solo il 14% mostra qualche forma di pentimento, gli altri danno a se stessi l’alibi del cattivo umore.

In fondo, è proprio così: l’aggressività in auto dipenderebbe proprio dal sovraccarico cognitivo, vale a dire dall’attenzione ai numerosi segnali necessari per guidare che attivano nel nostro cervello le stesse aree che, fino a qualche migliaio di anni fa, si attivavano nelle situazioni in cui si poteva incontrare un predatore in agguato.

Gli studi hanno dimostrato che i più soggetti alla road rage sono giovani uomini che vivono in centri urbani oltre i 10 mila abitanti, soprattutto se ulteriormente stressati per ragioni di lavoro.

TIGRI DI CITTA’

Il road rage è soltanto il caso più studiato di reazioni aggressive in caso di stress. Ce ne sono molti altri e tutti legati all’ambiente urbano. Le auto che incrociamo da ogni lato sono come tigri dai denti a sciabola in agguato nella boscaglia.

Gli appartamenti nei grandi condomìni sono rifugi in cui si riuniscono clan pronti ad affrontarsi tra loro. La metropolitana affollata è come la gabbia in cui circolano i topi di laboratorio, con la differenza che mentre i topi a disagio arrivano ad azzannarsi tra loro, noi ci limitiamo a desiderare che la nostra fermata arrivi presto, e in qualche caso non esitiamo a menare qualche gomitata per difendere pochi centimetri residui di spazio.

Nessuna esagerazione: lo dicono etologi e psicologi sociali. La città è una giungla. O meglio, un ambiente al quale la specie umana non si è ancora completamente adattata, capace di stimolare i nostri peggiori istinti (le reazioni aggressive).

Siamo infatti programmati per vivere in piccoli gruppi all’interno dei quali si formano forti legami sociali, proprio come avviene ancora oggi nelle comunità di cacciatori-raccoglitori, ma anche nei paesini di campagna dove tutti si conoscono. Peccato che oltre la metà della popolazione mondiale viva però in centri urbani medio-grandi. È quindi normale che le situazioni di affollamento in cui l’individuo è costretto a convivere con sconosciuti, nei confronti dei quali ognuno di noi nutre un’istintiva diffidenza, diventino a rischio.

In città quindi non sbagliamo se diciamo che diventiamo più pericolosi.
Le ricerche (come quelle appena citate sulla road rage) dimostrano che la ragione è che gli urbanizzati sono molto più stressati. Anzi, secondo i ricercatori dell’Università di Mannheim (Germania), lo stress da città lascia un marchio nel cervello.

Se si mettono delle persone in condizioni di stress sociale, infatti, una piccola zona cerebrale (l’amigdala) si attiva di più se la persona è cresciuta in città. E si attiva di più anche la corteccia cingolata anteriore. L’amigdala è una struttura cerebrale grande come un pisello che si trova in entrambi i lobi temporali, in profondità, e svolge la funzione di sensore del pericolo, provocando una reazione nell’organismo non appena viene percepita una minaccia. La corteccia cingolata è anch’essa coinvolta nell’elaborazione della risposta al pericolo. Risposta che, ovviamente, può essere aggressiva.

COME LA METTIAMO CON IL CIBO?

A renderci più reattivi e aggressivi è anche la fame. Non a caso, tutti, se costretti al digiuno, diventiamo intrattabili. La colpa però non è vostra: a provocare parte delle scenate e urla isteriche in orario da pasto sono i bassi livelli di glucosio nel sangue.

Il controllo degli stimoli aggressivi richiede energia, e il glucosio è l’unica fonte energetica accettata dal nostro cervello. Se non ne produciamo abbastanza, la rabbia ha la meglio sulle buone maniere: è scientificamente dimostrato.

In un recente studio, i ricercatori della Ohio State University hanno monitorato i livelli di aggressività di entrambi i membri di 107 coppie di coniugi per tre settimane. Ai soggetti sono state fornite bamboline voodoo con 51 spilloni, per rappresentare la “dolce” metà, ed è stata data la possibilità di assordare il coniuge con rumori più o meno molesti. Chi aveva livelli di glucosio nel sangue più bassi ha inflitto più punture nelle bambole, e torturato il partner con rumori più lunghi e fastidiosi, di chi mostrava livelli di zucchero nella norma.

Altre ricerche hanno dimostrato, per esempio, che chi beve limonata zuccherata si comporta, nei minuti seguenti, in modo più pacifico di chi ha bevuto un placebo. Molto dipende, naturalmente, anche dalla velocità e dall’efficienza con cui l’organismo metabolizza il glucosio. Ecco perché, a parità di ore di digiuno, alcuni risultano più simpatici di altri.

TUTTA COLPA DEI NEURONI

Nello specifico della rabbia i ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia hanno individuato il gruppo di neuroni che fa scattare i comportamenti aggressivi… nei topi.

In realtà oltre ad averli scoperti, sono riusciti a manipolarli, arrivando a controllare il comportamento dei roditori.

I ricercatori svedesi hanno rivolto la loro attenzione a un piccolo gruppo di neuroni, quelli del nucleo premamillare ventrale, dell’ipotalamo, la centralina del cervello che controlla molti degli istinti legati ai bisogni fondamentali, dal sonno all’appetito. Sarebbero proprio queste cellule a svolgere un ruolo chiave nei comportamenti aggressivi.

Studiando le interazioni tra topi maschi, gli scienziati avevano già notato che gli animali che si dimostravano più aggressivi verso un nuovo compagno messo nella loro gabbia erano anche quelli che avevano una maggiore attività nei neuroni del nucleo premamillare ventrale dell’ipotalamo.

Usando tecniche di optogenetica, che consentono di “accendere” o “spegnere” particolari gruppi di cellule in topi geneticamente modificati, gli scienziati sono anche riusciti a controllare questo comportamento, rendendo aggressivi i topi anche in situazioni in cui normalmente questi animali non attaccano, o al contrario “calmandoli” quando l’aggressione era già scattata.

Non solo. Per studiare la dominanza sociale si utilizza il  cosiddetto “test del corridoio”, in cui due topi vengono fatti avanzare uno verso l’altro in un tubo stretto, per determinare qual è quello più in alto nella gerarchia. Controllando i neuroni del nucleo premamillare, i ricercatori sono riusciti a scambiare la gerarchia, e a trasformare il topo dominante in subalterno e viceversa.

Conoscendo meglio i comportamenti legati all’aggressione si potrà arrivare un giorno a controllarla? Questa è la domanda a cui la scienza non ha ancora una risposta, ma che interessa tutti, in un modo o in un altro. Aggressori e aggrediti, automobilisti e pedoni, chi è calmo e chi è sempre sotto stress. Nel frattempo, ci possiamo sempre sfogare su bamboline voodoo, sapendo che almeno lì danni non ne facciamo…

LA SINDROME DI STOCCOLMA: quando gli ostaggi solidarizzano con i rapitori e le vittime difendono i carnefici

Patricia Campbell, nel 1974, a 19 anni, fu rapita dallo SLA (esercito di liberazione simbionese), famigerato gruppo di estrema sinistra responsabile di molti crimini nell’America degli anni ’70. Dopo due mesi di reclusione Patty si unì attivamente al gruppo partecipando a diverse rapine in banca.

Gianni Ferrara, venne rapito all’età di 8 anni, mentre si trovava con la famiglia ai Caraibi e portato in Venezuela da 5 agenti di polizia dello Stato di Zulia che chiesero un riscatto di 650 milioni di lire. Gianni negli oltre 2 mesi di sequestro si affezionò a tal punto ai rapitori che quando questi vennero arrestati inveì contro la polizia.

Clara Rojas, politica colombiana, rapita nel 2002 dalle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), si innamorò di uno dei suoi rapitori dalla cui relazione nacque un bambino.

Shawn Hornbeck, 11 anni, rapito nel 2002 e ritrovato per puro caso nel 2007 mentre le autorità cercavano un altro bambino rapito dallo stesso sequestratore, Michael Devlin. Inizialmente Michael avrebbe voluto uccidere Shawn per eliminare il testimone di quella che fu una violenza carnale su minore, ma Shawn gli avrebbe proposto di divenire il suo schiavo personale in cambio della vita. Tre anni dopo il suo rapimento, Shawn mandò dal proprio cellulare dei messaggi ambigui ai genitori:  in uno chiedeva per quanto ancora avessero intenzione di cercare loro figlio, in un altro (scritto 57 minuti dopo), si scusava e chiedeva se avrebbe potuto scrivere una poesia per loro. Questi messaggi erano firmati Shawn Devlin.

C’è una cosa che accomuna tutte queste persone: il rapporto indissolubile, quasi perverso che sconfina nell’amore fra vittima e carnefice. E dal nome singolare: Sindrome di Stoccolma

COSA E’ LA SINDROME DI STOCCOLMA

E’ un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta quando chi è vittima di un particolare tipo di violenza fisica e/o psicologica, sviluppa un sentimento positivo nei confronti del suo aguzzino, del suo carnefice, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.

LA STORIA

Il nome origina da un caso di sequestro di persone avvenuto il 23 agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson, evaso dal carcere di Stoccolma dove era detenuto per furto, tentò una rapina alla Sveriges Kredit Bank e prese in ostaggio tre donne e un uomo.

La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore in spazi angusti durò sei giorni.  Il rapporto che sviluppò fu tale che quando Olsson disse alla polizia che avrebbe sparato alla gamba dell’uomo in ostaggio, questi pensò che il suo carceriere fosse stato gentile a voler sparare solo alla gamba e non a lui. Quando poi gli ostaggi vennero liberati quest’ultimi si preoccuparono dell’incolumità dei propri carcerieri e dopo essere usciti dall’edificio, si abbracciarono reciprocamente. Successivamente le vittime continuarono a provare sentimenti contrastanti e apparentemente irrazionali nei confronti dei rapitori. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori ai loro rapitori, e non alla polizia, perché non li avevano uccisi.

Nel corso delle sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che “avevano ridato loro la vita” e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

COSA ACCADE NELLA MENTE DELLE VITTIME

Benché a livello cosciente si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia “farsi amico” il sequestratore, in realtà la Sindrome di Stoccolma non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La sindrome, comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo “legame positivo”, tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l’ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un “NOI qui dentro” contro un “LORO che stanno fuori”.

L’ostaggio reagisce come può all’estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la negazione. Per sopravvivere la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo.

Solo dopo qualche tempo l’ostaggio comincia a rendersi conto, ad accettare e a temere la propria situazione, ma trova un’altra valvola di sicurezza nel pensare che non tutto è perduto poiché presto interverrà la polizia per salvarlo. La certezza di una salvezza “garantita” dall’Autorità, aiuta l’ostaggio nella propria difesa mentale, ma più passa il tempo senza che accada nulla -e in casi simili è facile perdere la cognizione del trascorrere dei minuti e delle ore-, più l’ostaggio tende inconsciamente a rinnegare l’autorità costituita che è diventata per lui, di fatto, una incognita. Logica conseguenza è l’inizio del processo di immedesimazione, o di “identificazione”, con il carceriere.

Nel contempo aumenta sempre più il timore di una conclusione tragica e tutti gli ostaggi intervistati hanno dichiarato di aver approfittato dell’occasione per fare un resoconto della propria vita; tutti hanno giurato a se stessi di cambiarla in meglio una volta terminata la brutta avventura, quasi che quest’ultima costituisse lo spartiacque tra la “vecchia” vita e una “rinascita”, completamente avulsa e indipendentemente dalla precedente.

Quando ostaggio e rapitore si trovano all’interno di uno stesso locale, magari angusto, sia esso il caveau di una banca, o la fusoliera di un aereo, una casa, una grotta, un treno, o altro ancora, si sviluppa un rapporto di “convivenza” che favorisce, e accelera, il reciproco processo di “umanizzazione”. In tal senso, quanto più il carceriere riesce a compenetrarsi nei problemi dell’ostaggio, o viceversa, tanto più aumenteranno le possibilità di sopravvivenza.

Alcune vittime di sequestri, che provarono la sindrome, a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, e una di esse ha sposato Olofsson. Altre vittime hanno cominciato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all’arresto.

GLI STATI EMOTIVI VISSUTI DALLA VITTIMA

Tentando una schematizzazione su quanto finora detto, potremmo individuare la sequenza degli stati emotivi che vive un ostaggio anche per prevenirli o almeno per meglio comprenderli:

  1. Incredulità
  2. Illusione di ottenere presto la liberazione
  3. Delusione per la mancata, immediata, liberazione da parte dell’autorità
  4. Impegno in lavoro fisico o mentale
  5. Rassegna del proprio passato

Nella stragrande maggioranza, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l’effetto della sindrome, è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale del carceriere, bensì da ciò che questi potrebbe fare e NON fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere, ecc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di sindrome poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sottocontrollola situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza.

Un’altra esperienza che accomuna gli ostaggi è l’immedesimazione nelle qualità umane dimostrate dal carceriere, anche quando queste siano state di breve durata.

Nei casi di rapina con ostaggi, se è vero che il rapinatore armato si trova “in trappola” e si ritiene “vittima” della polizia, è altrettanto vero che anche l’ostaggio tende a condividere tale atteggiamento. Quando il rapinatore viene sorpreso dalla polizia ed è “costretto” a prendere ostaggi, il suo problema è chiaro: fuggire vivo e, possibilmente, con i soldi. L’ostaggio si trova nella stessa identica posizione: vuole uscire vivo; il suo carceriere certo glielo consentirebbe, ma è la polizia a impedirlo. Il rapinatore si “umanizza”, perciò, agli occhi dell’ostaggio, è diventato “persona”, con problemi identici ai propri. L’insistenza della polizia nel richiedere al bandito di arrendersi, non fa altro che prolungare la prigionia e allontana la speranza di riguadagnare la libertà senza danni fisici.

Matura così, nella mente dell’ostaggio, il convincimento che: “se la polizia va via, anch’io me ne vado; se la polizia lascia andare il bandito, anch’io sarò libero!”. Comincia così la Sindrome di Stoccolma e, d’altro canto, il legame positivo, l’“umanizzazione” e il “rendersi persona”, che è alla base della sindrome, si può manifestare non solo nell’ostaggio, ma anche nel carceriere.

Dalla banca dati dell’FBI statunitense risulta che circa l’8% degli ostaggi ha manifestato sintomi della sindrome di Stoccolma.

LA SINDROME AL CINEMA

Se la tematica vi ha incuriosito, non potete perdervi alcune pellicole che sapranno ancor più di questo post, portarvi a vivere (in totale sicurezza) la sindrome di Stoccolma

  • Rapina a Stoccolma (2018): il film basato sulla rapina alla Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e da cui prende il nome la Sindrome
  • Un mondo perfetto: l’evaso rapisce un bambino e fugge attraverso il Texas. Durante il viaggio il bimbo sviluppa un legame tipico della sindrome di Stoccolma.
  • Il portiere di notte: la protagonista instaura un rapporto ossessivo e indissolubile con l’uomo che la teneva prigioniera nel campo di concentramento durante la II guerra mondiale
  • John Q: le persone sequestrate da un padre che non può far trapiantare il cuore del figlio si schierano dalla parte del loro sequestratore.
  • Quel pomeriggio di un giorno da cani