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FOREVER YOUNG? LA SINDROME DI DORIAN GRAY

E’ storia recente, ma l’unico proiettile d’argento «contro il logorio della vita moderna», lo ha sempre e solo decantato il Cynar, l’amaro a base di carciofo tanto caro all’attore di teatro Ernesto Calindri. Troppo recente anche per Dorian Gray, il protagonista del romanzo di Oscar Wilde, che per mantenere eterna la giovinezza, per scacciare le rughe dello spirito e della pelle, è stato costretto a vendere l’anima al diavolo.

La necessità di opporre strenua resistenza all’invecchiamento e al terrore che il corpo si pieghi al passare degli anni, è nota, non a caso, come sindrome di Dorian Gray. Sintomi tipici dei tempi ultra moderni.

OSCAR WILDE

Dorian Gray per scongiurare gli effetti del tempo, fece un patto: lo specchio gli rimandava quello che era stato; il quadro, quello che stava diventando.

Giovane dalla straordinaria presenza e dai modi aristocratici, affascina il pittore Basil Hallward. L’infatuazione è tale che Hallward decide di immortalarne la bellezza in un ritratto dalla perfetta somiglianza. Dorian vedendo la sua immagine così perfetta, ne resta turbato e formula l’augurio che la vita non lasci mai alcuna impronta sul suo volto ma che, al contrario, vada a segnare quello del ritratto. Ed è ciò che succede: Dorian si dà a una vita di piaceri senza scrupoli, cominciando a disfarsi di tutti coloro che ritiene inopportuni, dalla giovane innamorata Sybil che abbandona e che per il dolore muore suicida, fino all’amico pittore che uccide di sua mano per il disappunto di sentirsi rimproverato. Ciò nonostante il suo volto continua a restare quello di un bellissimo adolescente incontaminato. Ma, di tanto in tanto, andando a sbirciare il ritratto Dorian ne scorge le terribili mutazioni e un giorno, non sopportandone più la vista, si avventa sulla propria immagine…

SINDROME & SINTOMI

La sindrome di Dorian Gray viene descritta per la prima volta dallo psichiatra Brosig, nel 2000, in un testo intitolato con questo nome, per dare risalto al gran numero di pazienti che lo contattano per la paura di invecchiare (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11471770). La nota più grave di questa sindrome è che chi è ne affetto arriva, talvolta, a compiere pericolose pratiche allo scopo di rimanere giovane: chirurgia estetica senza ritegno, eccesso di botox, e via dicendo. Il loro desiderio non è solo rimanere giovani esteticamente: vogliono continuare a vivere la vita come se avessero 18 anni e come tali continuano a comportarsi.

Brosig ha individuato alcuni tratti rappresentativi del disturbo:

– preoccupazione per l’aspetto esteriore;
– dismorfofobia, ovvero l’ossessione per un’imperfezione fisica percepita e spesso non reale (sentirsi sempre troppo grassi, per esempio, o credere di avere un naso anormale);
– eccessivo ricorso ad integratori, cosmetici, farmaci e rimedi medici o chirurgici per perfezionare il proprio aspetto o combattere l’invecchiamento;
– ricorso immotivato a stimolanti sessuali e/o droghe per contrastare la preoccupazione sulla libido e/o l’efficienza erettile;
– interesse smodato per il sesso, con promiscuità sessuale e tendenza a ricercare pratiche sempre nuove e/o estreme.

Di fatto queste persone vivono fra l’illusione e la frustrazione: fantasticano su un nuovo trattamento che restituirà loro la giovinezza ma quando si rendono conto che nulla può trasformare quella fantasia in realtà, si sentono frustrate ma lo considerano come un errore di procedimento e non della loro percezione.

TEMPI MODERNI

Questo disturbo è il frutto della necessità dei bisogni moderni: esaltare la bellezza fisica, cura maniacale dell’apparenza e sessualità come panacea universale della felicità. Ostentazione che oggi è possibile grazie ai social network, i selfie, e la presenza di alcuni programmi televisivi che inneggiano al narcisismo spietato (Uomini e donneL’isola dei famosi, con presentazione di personaggi femminili e maschili proposti come modelli standard di bellezza).

In questo contesto nascono, a testimoniare la plasmabilità della mente e dell’apparato psichico, nuove patologie di derivazione narcisistica, quali ad esempio l’ortoressia (ossessione per il mangiar “sano”) e la vigoressia (ossessione per il fisico perfetto), che si sommano agli aspetti disfunzionali classici quali disturbi dell’autostima e dell’affettività e senso di depressione legata al senso di inadeguatezza o estraneità psicosociale, che colpisce soprattutto i soggetti meno predisposti a adeguarsi ai valori dominanti.

La sindrome di Dorian Gray – che rappresenta la evoluzione negativa di un fenomeno sociale e culturale che va distinto dal disturbo narcisistico vero e proprio – presenta aspetti molto presenti nella vita sociale oggi, che diventano per chi ne soffre, motivo di disagio sociale ed individuale a volte grave.

SUPERFICIALITA’ EMOTIVA

La sindrome di Dorian Gray si evidenzia in corrispondenza dei cambiamenti legati alla maturazione corporea. Eventi come la perdita dei capelli, della tonicità della muscolatura e dei tessuti, l’aumento di peso o la riduzione della prestanza fisica possono scatenare intense crisi. Questa sindrome evidenzia gli aspetti evidenti della superficialità emotiva che oggi domina e impera sui rapporti sociali e di coppia. Piacere e piacersi per quello che si è, deve essere un coacervo inserito profondamente nelle nostre strutture emotive e poco importa se si interagisce socialmente con persone che la pensano diversamente, con persone che non sanno guardare oltre il sottile strato della pelle per cogliere l’altro nella sua completezza e veridicità. Si tratta, quindi, di una situazione complessa che ha bisogno di un intervento psicoterapeutico per essere superata.

Non posso, a questo punto, che concludere con le parole di Wilde o meglio di Dorian Gray… ove è racchiuso tutto il suo pensiero, che non è consapevolezza ma incapacità di stare al gioco della vita: «Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente… Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l’oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla…».

UN INSETTO SOTTO PELLE… LA SENSAZIONE CHE PROVA CHI E’ AFFETTO DALLA SINDROME DI EKBOM

Insetti e parassiti sotto pelle. E’ la sensazione che avvertono le persone affette dalla sindrome di Ekbom, il disturbo psicologico che porta ad avere allucinazioni tattili e prurito costante in una o più parti del corpo.

Chi ne soffre, sostiene con forte convinzione di avere vermi, ragni, insetti di natura indefinita sotto pelle, nonostante esami e medici dicano tutto il contrario. E per rimuoverli, si provoca lesioni con qualsiasi oggetto tagliente o appuntito trova disponibile, come lamette, coltelli, forbici e punteruoli. Le ferite auto inferte, i lembi di pelle rimossi, capelli e fibre che restano sotto pelle a causa del continuo sfregamento (spesso scambiati per le “antenne” e le zampette dei parassiti), vengono esibiti ai medici come prova dell’infestazione in atto. Chi ne soffre si lava di continuo, applica prodotti sul corpo e fa eseguire ripetute disinfestazioni a casa, che naturalmente non portano ad alcun miglioramento della patologia. Per questa ragione c’è chi addirittura è spinto a bruciare i vestiti e ad abbandonare la propria abitazione. I pazienti sono talmente convinti dell’infestazione che non intendono affidarsi a degli specialisti.

IL PRIMO CASO

Il primo caso noto in letteratura medica di sindrome di Ekbom o parassitosi delirante fu descritto a metà del XIX secolo dal dottor Charcellay De Thours, che visitò una paziente convinta di essere infestata da ragni dopo aver bevuto acqua contaminata da una fonte. Benché nei decenni successivi furono date diverse descrizioni alla patologia, chiamata con vari appellativi come Allucinazioni Cutanee Visive, Ipocondria Monosintomatica e Ossessione Allucinatoria Zoopatica, soltanto nel 1938 il neurologo Karl Axel Ekbom la descrisse accuratamente in tutte le sue caratteristiche. Per questa ragione la parassitosi delirante è nota anche con il nome di Sindrome di Ekbom.

CHI COLPISCE?

La parassitosi delirante o sindrome di Ekbom, interessa prevalentemente persone in tarda età o comunque nella fase antecedente alla senescenza, e nella maggior parte dei casi si tratta di donne. La patologia, come si legge in un articolo pubblicato nel Journal of Pshycopathology, si manifesta in maniera improvvisa, violenta, a seguito di un evento specifico come il contatto con un animale, con i vestiti di un’altra persona o l’assunzione di una sostanza infetta. Dopo di ciò compaiono le prime allucinazioni visive e sensoriali, che spingono a infliggersi lesioni per rimuovere il problema. Curiosamente la condizione può essere indotta nelle persone mentalmente predisposte; è noto il caso di due sorelle anziane che avevano sviluppato il medesimo disturbo abitando nella stessa casa, e quello di un’altra anziana che aveva “contagiato” con la parassitosi delirante altri membri della sua famiglia.

L’incidenza della malattia è maggiore in Europa e in Nord America, in una percentuale che oscilla tra il 5% e il 15%.

COME RICONOSCERLA

La maggior parte delle persone che hanno la sindrome di Ekbom riportano sensazioni che attribuiscono a movimenti di insetti che passano attraverso la pelle o che si muovono all’interno. Questa percezione anormale è chiamata “formicazione” e fa parte dei fenomeni noti come parestesie, che comprendono anche forature o intorpidimento. Sebbene le formiche siano uno dei “parassiti” più frequentemente indicati e danno nomi a termini diversi che sono usati per riferirsi alla sindrome di Ekbom, è anche comune per le persone con questo disturbo dire che hanno vermi, ragni, lucertole e altri piccoli animali. A volte affermano che questi sono invisibili.

Spesso l’aspetto della sindrome di Ekbom è associato a una iper attivazione dell’organismo dovuta al consumo di alcune sostanze. In particolare, la parassitosi delirante in molti casi è dovuta a Sindrome da astinenza nelle persone con dipendenza da alcol o al consumo eccessivo di cocaina o altri stimolanti.

Oltre ai disturbi psicotici, altre alterazioni nella struttura e nel funzionamento del cervello possono spiegare l’emergere di questo disturbo. Le malattie neurodegenerative (tra cui la demenza alcolica) e le lesioni traumatiche al cervello, ad esempio, sono due cause comuni della sindrome di Ekbom.

TRATTAMENTO

Il trattamento più efficace è quello farmacologico e psichiatrico. Insomma benchè sia molto rara è una sindrome che va tratta da specialisti e non ci si può affidare al caso. Come molte delle sindromi che ho descritto in questo blog.

Forse qualcuno si sta chiedendo perchè mi scervello a studiare tutte queste sindromi bizzarre non solo nel nome, ma anche nella sintomatologia. Curiosità, sete di conoscenza sono le risposte che più mi appartengono. Spesso siamo portati a giudicare le stranezze degli altri senza conoscere veramente cosa ci sia alla base. Bene, più conosciamo il cervello, più allarghiamo la rete delle nozioni e più diventiamo consapevoli che ognuno, a modo suo, è lì a combattere la sua battaglia quotidiana con mostri che anche se non vediamo, sono tutt’altro che innocui.

GELOSO DA MORIRE. LA SINDROME CHE TRASFORMA L’AMORE IN MALATTIA

E’ sera inoltrata. Solo in casa, inganni il sonno navigando sui social, leggendo distratto notizie qua e là, quasi senza meta. All’improvviso qualcosa ti costringe a spulciare la timeline di Facebook del partner, con una precisione certosina da far impallidire un analista dei servizi segreti. E ti tormenti analizzando le foto in cui la lei/lui di turno sorride in mezzo agli amici, e ti chiedi ragione di ogni post i cui like fioccano come la neve a gennaio. Tutto è un indizio, pugnalate lievi ma precise nella pelle martoriata dalla gelosia.

La gelosia, quella dannata sensazione così difficile da esprimere a parole, ma dalle emozioni definite e chiare… La cartina di tornasole di tanti patimenti e inganni, con cui poeti, cantanti e scrittori hanno fatto fortuna.

Un po’ di gelosia è sana e anche utile, ben diversa è quella patologica e nello specifico quella nota come sindrome di Otello, dal dramma di Shakespeare Otello, il moro di Venezia, dove il personaggio uccide la moglie perché convinto della sua infedeltà.

QUANDO LA GELOSIA DIVENTA MALATTIA

La psicoterapeutica alla Goldsmiths University di Londra, Windy Drydon, sostiene che i disturbi legati alla gelosia patologica portino le persone a vedere una realtà distorta dove la relazione è ambigua e nasconde un tradimento mirato esclusivamente a provocare dolore e a sconfiggere l’autostima.

Si può chiamare anche gelosia morbosa e colpisce moltissime persone, donne e uomini, di tutte le culture e ceti sociali. “A volte a scatenare la gelosia morbosa è un semplice atteggiamento gentile del partner nei confronti del sesso opposto, e talvolta, anche quando rivolto allo stesso sesso. Nei casi più estremi, si arriva a uccidere il proprio partner per poi suicidarsi”. Ecco svelato il perché del riferimento alla famosa opera di Shakespeare.

Il mondo digitale e dei social network non è un toccasana per le patologie come la Sindrome di Otello, in quanto l’essere a continuo contatto con le immagini della vita altrui ci fa sentire in perenne confronto con gli altri e di conseguenza gelosi. Secondo un’analisi di Scope, una charity dedicata alle disabilità sociali, il 62% degli utenti online si sentirebbe inadeguato e svilupperebbe forme di gelosia estreme a causa del web.

Spesso la Sindrome di Otello ha i suoi primi sintomi proprio nel mondo digitale: si comincia con l’ossessione da social network, quando si controllano nervosamente le pagine Facebook, Twitter, Instagram del partner per trovare atteggiamenti sospetti che denuncino un tradimento o una mancanza di rispetto.

COME NASCE LA GELOSIA

Non è un’emozione primaria come rabbia, vergogna o tristezza, bensì qualcosa di più complesso che richiede un’elaborazione più articolata. La gelosia è un sentimento fatto di ansia e incertezza, e la diretta conseguenza può essere la rabbia verso chi sia più considerato dalla persona amata, ma anche verso la stessa persona amata. Molti psicologi e psichiatri sono d’accordo nel sostenere che nella gelosia morbosa prevale la dimensione ansiosa e di insicurezza: quando cioè il geloso si sente inadeguato rispetto il partner. La gelosia si avvicina al vissuto della rabbia e dell’odio, invece, quando la sensazione è quella di patire un torto, un tradimento, di essere parte lesa. E’ quindi spesso associata a tratti quali la moralità, la rigidità valoriale, una visione del mondo dicotomica, semplicistica e riduzionistica ma totalizzante. Ha molto a che fare con il bisogno di primeggiare, di essere il numero uno nei pensieri e nei desideri di qualcuno.

Esistono varie sfumature che la gelosia assume nel diventare sindrome di Otello. C’è chi la vive in un contesto di sadismo e possessività, dove la persona amata diventa un oggetto an-empatico, dove addirittura il piacere è dato dalla sofferenza dell’altro. C’è chi la vive in modo delirante, in cui, a fronte di un’inconsistenza di prove, la persona gelosa è assolutamente convinta del tradimento. Non si tratta solo di attimi di irrazionalità, ma di veri e propri pensieri strutturati in cui c’è la convinzione di essere traditi. Queste forme sono rare e appartengono alla psicopatologia.

Il caso psichiatrico più grave di gelosia delirante pare essere quello dell’erotomania: la convinzione di essere amato e poter dunque vantare diritti su una persona che spesso nemmeno si conosce, dove si delinea un percorso emotivo che va dalla speranza fino al rancore, passando attraverso il dispetto.

CHI SONO I GELOSI MORBOSI?

La cronaca nera riporta spesso raptus vissuti da profili identificabili in situazioni note. Più del 60% dei casi infatti riguarda coppie sposate, mentre oltre l’85% delle volte è l’uomo a uccidere. Il quadro professionale degli autori dei delitti è quello medio-basso, con un’alta presenza di disoccupati, con un’età che varia dai 31 ai 51 anni. Il delinquente passionale è una persona che si caratterizza per un attaccamento con la figura materna, fatto di paura di non essere accudito, di ansia per la mancanza di protezione, con conseguente desiderio di un’amore-fusionale, una sorta di fissazione che impedisce la realizzazione di un amore maturo.

GELOSIA E CERVELLO

La gelosia delirante a cui sono associati comportamenti aggressivi come lo stalking, il suicidio o l’omicidio sarebbe legata ad uno squilibrio di una specifica area del cervello. È il risultato di uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, pubblicato sulla rivista «Cns – Spectrums» della Cambridge University Press.

Secondo gli autori, le radici neuronali della sindrome di Otello si troverebbero nella corteccia frontale ventro-mediale, un’area del cervello che sovrintende complessi processi cognitivi e affettivi.

Se la gelosia è un sentimento del tutto naturale, il punto è individuare lo squilibrio biochimico che trasforma questo sentimento in un’ossessione pericolosa. Pensare che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa importante della propria vita, interpretare erroneamente i comportamenti e i sentimenti del partner e percepire la sua perdita come una totale catastrofe sono ad esempio sintomi che alla fine possono portare a comportamenti aggressivi ed estremi. «La speranza – spiegano gli autori dello studio – è che una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali e delle alterazioni biochimiche che sottendono i vari aspetti della gelosia delirante, possa aiutare ad arrivare ad un’identificazione precoce dei soggetti a rischio».

COME RICONOSCERE LA SINDROME DI OTELLO

Alcuni aspetti che caratterizzano la sindrome:

  • Incorporazione di una terza parte immaginaria nella relazione della coppia.
  • Il soggetto non sa come controllare la sua gelosia perché non è consapevole del suo problema.
  • È costantemente vigile e vigile con le abitudini del suo partner.
  • Percezione errata degli eventi quotidiani della coppia, legati alla gelosia. Cerca sempre la giustificazione una situazione di inganno.
  • Impossibilità di controllare impulsi, pensieri, false percezioni autoimposte.

COME COMPORTARSI CON UN POTENZIALE OTELLO

Sempre secondo gli studi condotti dalla Drydon, coloro che hanno una relazione con chi soffre di questa patologia dovrebbero non eccessivamente rassicurare il partner. Piuttosto rivolgersi al partner geloso con affermazioni come “Ti amo, ma non risponderò a questa domanda“, perché la continua ostentazione di rassicurazione farebbe più male che bene al soggetto morbosamente geloso. “I gelosi ossessivi devono far fronte alla loro paura che non ci si può fidare di nessuno e capire con le loro forze che la radice di quella gelosia morbosa è patologica e quindi non fondata sulla realtà“. La Sindrome di Otello infatti porta a paranoia e mania del controllo sugli altri, atteggiamenti decisamente nocivi per la coppia e per lo stesso individuo.

Stando agli psicologi, non esiste una vera e propria cura per la Sindrome di Otello, ma ciò che può essere fatto per sfuggire alle grinfie del personaggio Shakespeariano è anzitutto riconoscere di essere dei gelosi morbosi. Molto spesso la gelosia morbosa porta all’impossibilità di godersi il tempo con se stessi e con gli altri, per esempio guardare un film o ascoltare la musica, perché le scene dei film e le parole delle canzoni fanno personalizzare il soggetto nelle situazioni amorose e causano depressione, ansia, panico, paranoia. Parlare di questo disturbo senza filtri però si può ed è molto più comune di quello che pensiamo.

Il consiglio migliore è comunque sempre quello di rivolgersi a uno specialista.

BELLO DA STAR MALE: LA SINDROME DI STENDHAL

Tutti ne hanno sentito parlare. E probabilmente anche tu, se sei anche solo uno sporadico frequentatore di musei e gallerie, conosci qualcuno che afferma di esserne stato colpito. Sto parlando della Sindrome di Stendhal, fenomeno che aggredisce inaspettatamente la persona che si trova ad osservare un’opera d’arte ai suoi occhi di incommensurabile bellezza. Vertigini, tachicardia, confusione, crisi di pianto, ansia… Insomma, la Sindrome di Stendhal, per quanto sgradevole, sembra essere la manifestazione dell’immenso potere dell’arte sulla nostra psiche.

Nota anche come Sindrome di Firenze, venne descritta per la prima volta dallo scrittore francese Stendhal, nel suo libro Roma, Napoli e Firenze. L’autore della Certosa di Parma, sperimentò lui stesso questo fenomeno durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Qui fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo.

RICERCHE E STUDI

E’ stata una psichiatra italiana a teorizzare per la prima volta questa sindrome: Graziella Magherini, responsabile del Servizio di Salute mentale dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Firenze. Nel 1977, analizzò le reazioni di più di 100 turisti usciti dagli Uffizi, in preda a singolari malori, riuscendo a cogliere tratti fra loro comuni. Le sue ricerche sono raccolte in un libro La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte.

Nello studio vennero osservati soggetti per lo più di sesso maschile, di età compresa fra 25 e 40 anni e con un buon livello di istruzione scolastica, che viaggiavano da soli, provenienti dall’Europa Occidentale o dal Nord-America che si mostravano interessati all’aspetto artistico del loro itinerario. L’esordio del disagio si presentò poco tempo dopo il loro arrivo a Firenze, e si verificò all’interno dei musei durante l’osservazione delle opere d’arte.

In merito alla sua ricerca, Graziella Magherini affermò “La Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di colpire gli stati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e strutture che normalmente sono rimosse”.

Già Freud, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno smarrimento cognitivo, l’opera d’arte come importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi.

E poi Goethe, Sterne, Proust e Dostoevskij descrissero successivamente nei loro scritti, con differenti emozioni l’effetto che le opere rinascimentali provocarono quando si trovarono dinnanzi al loro cospetto.

I SINTOMI

Sono vari e possono comparire non solo di fronte a opere d’arte, ma anche ascoltando musica. Vertigini, svenimenti, tachicardia, attacchi di panico, addirittura allucinazioni; che potrebbero in alcuni casi sfociare in stati d’ansia prolungati. Come se il cervello andasse in sovraccarico da meraviglia e non potesse contenere tutto ciò che vede senza rimanerne folgorato nel profondo. Più colpite sembrano essere persone particolarmente sensibili e in luoghi ricchi di stimoli artistici, come Firenze appunto.

Sensazioni estatiche, definite però anche patologiche, non a caso la Sindrome di Stendhal ha anche un altro nome: malattia da iperculturemia.

Dalla sua definizione, nel 1977, si è discusso molto in psicologia, e sono molti gli studiosi che affermano che in realtà non esista o che possa essere assimilata ad altre sindromi più generiche e ampie, come quella del viaggiatore.

La Magherini ha anche cercato di capire se alcune opere più di altre fossero responsabili dello scatenarsi della sintomatologia. Michelangelo è risultato essere l’artista che più di altri ha contribuito a scuotere gli animi e nello specifico il suo David. “Il David presenta delle caratteristiche eccezionali: in primo luogo possiede una bellezza anatomica straordinaria e poi, contemporaneamente, è un eroe biblico e, per la città, un eroe civico. Soprattutto, ciò che colpisce chiunque, è il lato estetico: è un bellissimo nudo e ciò riesce a influenzare l’animo di alcune persone rendendole in qualche modo eccitate, depresse e così via, influenzando perciò l’emotività dello spettatore, in un senso o in un altro”.

NEURONI SPECCHIO, CERVELLO E STENDHAL: COSA LI UNISCE?

Grazie alla scoperta dei neuroni-specchio, negli anni ’90 (ne abbiamo parlato in un precedente articolo: EMPATIA: L’ANTIDOTO A PREGIUDIZI, CONFLITTI E DISEGUAGLIANZA) , è più facile ora capire cosa succede nel cervello quando ci si trova di fronte un’opera d’arte. Nelle persone particolarmente sensibili sembra arrivino troppi impulsi visivi nello stesso momento, e che questi producano così un’intensa eccitazione, che si tramuta nei sintomi che abbiamo descritto.

Secondo il neurologo Semir Zeki, siamo dotati di un cervello visivo con cui possiamo cercare di spiegare e capire la creazione artistica. Allo stesso modo siamo dotati di un cervello artistico, prolungamento di quello visivo. Il nostro cervello non è un semplice spettatore passivo che si limita a registrare la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che vediamo di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte.

La risposta del cervello di fronte all’arte potrebbe non solo fornire spiegazioni maggiori sulla Sindrome di Stendhal, ma anche capire meglio il funzionamento del cervello, le cui logiche non sono ancora del tutto conosciute.

L’APPROCCIO PSICOANALITICO

Secondo l’approccio psicoanalitico chi soffre della Sindrome di Stendhal non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.

Un concetto, questo del viaggio sentimentale, già proposto da Laurence Sterne (1713-1768), precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo sentimental una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

COSA FARE SE VENIAMO CATTURATI DA STENDHAL…

Quando il problema persiste nel tempo, è consigliabile andare da un medico specializzato. Nella maggior parte delle volte, a quasi tutti è capitato di rimanere assolutamente affascinati dalla bellezza, fosse per un oggetto d’arte o un’aria musicale. Probabilmente chi arriva al punto di svenire e di provare malessere davanti alla bellezza in sé conserva una sensibilità estremamente accentuata che può risultare difficile da gestire.

Ma è pur vero che la maggior parte di coloro che intraprendono un viaggio in solitudine, in luoghi fortemente suggestivi e capaci di indurre forti reazioni emozionali, possono inciampare in alcuni sintomi propri della sindrome, pur senza conseguenze preoccupanti.

Anche lo scrittore russo Fëdor Michailovic Dostoevskij inciampò in questa sindrome, durante la visione del quadro di Holbein, un volto tumefatto, pieno di ferite sanguinolente. Insomma sono molti coloro che hanno conosciuto la sindrome.

Perdersi nella bellezza, posso sostenere da profano, che sia alla fine una fortuna. Non tutti sanno cogliere l’estetica e il vissuto di un’opera d’arte e se succede, senza lasciare strascichi ovviamente, non può che essere una esperienza arricchente. L’apertura di una porta sulla magnificenza che talvolta dimentichiamo che è solo lì ad aspettarci.

SEPPELLITEMI AL CIMITERO: LA STRANA SINDROME CHE FA CREDERE MORTI I VIVI

Chi mi conosce sa che non sono uno psicologo, tanto meno un medico, ma la mia sete di conoscenza mi porta inevitabilmente a ricercare le informazioni più diverse e a leggere i libri meno conosciuti. Ciò di cui vi racconterò oggi è una sindrome piuttosto strana, infatti sono pochi i non addetti ai lavori che ne hanno sentito parlare. Ma proprio la sua particolarità ha colpito la mia attenzione, ecco perché voglio condividere con voi ciò che ho, nel mio piccolo, appreso.

C’è una malattia che porta le persone a credersi morte, a essere convinte di aver perso gli organi interni e tutto il sangue: è la sindrome di Cotard, anche nota come sindrome del cadavere che cammina. Diagnosticata per la prima volta dal neurologo francese Jules Cotard nel 1880, quando si trovò di fronte una donna di 43 anni che sosteneva di essere priva di organi e di possedere unicamente ossa e pelle.

MADEMOISELLE X

La paziente, definita con lo pseudonimo di Mademoiselle X, affermava di non essere in possesso di cervello, nervi, torace, stomaco e intestino. I problemi della donna erano cominciati anni prima, in un periodo di profonda spossatezza nel quale aveva sentito il suo corpo cambiare.

Un paio di anni dopo era sicura di essere morta. Convinta di non doversi più nutrire, non percepiva più gli stimoli della fame e si reputava immune dalla morte naturale. Inoltre pensava che quella condizione fosse una sorta di punizione per come aveva condotto la sua vita e che l’unico modo per porre fine alle sue sofferenze fosse darsi fuoco (cosa che infatti tentò di fare un paio di volte).

Nel 1882, a seguito di questo stravagante caso, Cotard conia il termine “delirio di negazione” per descrivere al meglio la nuova patologia. In medico aveva individuato dei punti fermi della malattia e li aveva descritti definendoli una forma grave di malinconia ansiosa.

LA SCRITTRICE AMERICANA

Il caso più recente di cui ho trovato descrizione è invece quello di Esmé Weijun Wang, una scrittrice americana di origini asiatiche che il 5 novembre 2013 giunse alla conclusione di essere morta.

La sua esperienza è narrata nel libro “Perdition Days: On Experiencing Psychosis”, dove racconta che precedentemente alla diagnosi si era sentita molto stanca e anche il suo senso di realtà aveva iniziato a vacillare. Aveva l’impressione di aver perso il controllo su ciò che la circondava e, nel tentativo di difendersi da quelli che sembravano essere i primi segni di una psicosi, aveva iniziato a leggere un manuale terapeutico alla ricerca dei propri valori e, presa da una frenesia organizzativa, aveva riordinato il suo spazio di lavoro.

Una mattina Wang svegliò il marito prima dell’alba con le lacrime agli occhi, euforica di gioia, dicendo che finalmente aveva capito tutto. Un mese prima, quando su un volo da Londra San Francisco aveva perso conoscenza per quattro ore, non era svenuta, come avevano detto i medici. Era morta. La gioia momentanea lasciò presto il posto alla disperazione. Wang si rifiutava di mangiare, parlare, lavorare… “Ero sicura che insieme a me fossero morti anche mio marito e il mio cane” racconta lei stessa. “Inizialmente non ero sconvolta, perché pensavo che mi fosse stata data una seconda chance, la possibilità di fare tutto di nuovo”.

Per quasi due mesi la donna aveva sofferto della sindrome di Cotard.

I CASI NOTI SONO UN CENTINAIO

Dal momento della scoperta fino ad oggi, sono stati registrati, per fortuna, solo un centinaio di casi. Nel 2008 una donna filippina aveva espresso ai parenti il desiderio di andare al cimitero per poter stare con i morti dato che sentiva il nauseabondo odore del suo corpo che marciva.

Nel 2013 una donna persiana era convinta di essere morta a causa di un personaggio appartenente al folklore del suo paese. La donna raccontava di essere stata uccisa da un demone dalle sembianze femminili che le aveva dissezionato l’addome e le aveva mangiato il fegato.

Un altro è il caso di un uomo britannico che, dopo aver tentato il suicidio, era convinto di esserci riuscito ed essere morto. Il ragazzo trascorreva la maggior parte del tempo al cimitero, unico luogo in cui si sentiva sereno. La cosa più sconvolgente, però, si trova nei suoi referti medici. Alcuni esami effettuati sul suo cervello mostrano un’attività cerebrale anomala tipica del sonno profondo.

LE CAUSE

Le cause della malattia sono molto dibattute. I deliri, riporta il Washington Post, sono generalmente associati ad altre condizioni neuropsicologiche come la schizofrenia, la demenza, il morbo di Parkinson e altre lesioni cerebrali. Tra i sintomi della malattia c’è l’assenza di reazione agli stimoli esterni, come il rifiuto del cibo, nella convinzione di non averne bisogno perché si è morti e l’incapacità di provare emozioni.

Personalmente questa sindrome mi ha inquietato un bel po’, soprattutto perché sono solito studiare la notte, quando tutto è buio e anche i rumori della città si sopiscono. Quando le paure si svegliano e iniziano a tormentarci. E ci fa dire “e se succedesse anche a me”?. Ci piace crederci immuni, eppure siamo fragili, soprattutto di fronte alle cose che non conosciamo. Intanto anche le ultime luci della città si sono arrese, la solitudine della notte allunga i suoi artigli e anche di questo libro, sono arrivato all’ultima pagina!

 

 

HIKIKOMORI: LA VITA IN UNA STANZA

Fino a qualche anno fa erano soprattutto giovani, oggi ad essere colpite sono anche persone di mezza età che, a carico di genitori anziani, né studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata chiusi in casa. A stento parlano con genitori, amici e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della rete e dei social con profili fittizi, unica finestra con la società che hanno abbandonato.

Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione e mezzo di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi. Nel nostro Paese l’associazione Hikikomori Italia parla di almeno 100 mila casi.

Da uno studio commissionato da una agenzia governativa a fine 2018, su individui fra i 40 e i 64 anni, è risultato che più di 600 mila persone possono essere considerate hikikomori, più delle 541 mila fra i 15 e 39 anni. L’80 per cento sono maschi, mentre il 46 per cento di questi reclusi per scelta ha dichiarato di vivere in questa situazione da almeno 7 anni, e il 34 per cento di loro dipende economicamente dai genitori.

I TRE STADI

I stadio. La persona comincia a percepire la pulsione all’isolamento sociale, senza però riuscire a elaborarla consciamente. Si accorge di provare malessere quando si relaziona con altre persone, trovando maggiore sollievo nella solitudine e nelle relazioni virtuali. I comportamenti che caratterizzano questo stadio sono: il rifiuto saltuario di andare a scuola o al lavoro utilizzando scuse di qualsiasi genere, il progressivo abbandono di tutte le attività “parallele” che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno, una graduale inversione del ritmo sonno-veglia e la preferenza per attività solitarie.

II stadio. Si comincia a elaborare consciamente la pulsione all’isolamento e ad attribuirla razionalmente ad alcune relazioni o situazioni sociali. È in questa fase che si cominciano a rifiutare le proposte di uscita degli amici, si abbandona progressivamente la scuola e il lavoro, si inverte totalmente il ritmo sonno-veglia e si trascorre la quasi totalità del proprio tempo chiusi in camera dedicandosi ad attività solitarie. I contatti sociali con il mondo esterno si limitano ora quasi esclusivamente a quelli virtuali, coltivati attraverso il web soprattutto utilizzando chat, forum e giochi online. Viene mantenuto anche un rapporto (spesso conflittuale) con gli altri membri della famiglia.

III stadio. La persona decide di abbandonarsi completamente all’isolamento sociale e si allontana progressivamente anche da genitori/famiglia e dalle relazioni sviluppate in rete. Quest’ultime diventano fonte di grande malessere, in un modo simile alle relazioni sociali canoniche. L’hikikomori sprofonda in un isolamento totale.

Ovviamente queste fasi non sono rigide, i vari stadi si alternano fra ricadute o miglioramenti e peggioramenti.

LE 4 TIPOLOGIE DI HIKIKOMORI 

Maïa Fansten, sociologa francese che da anni si occupa di isolamento sociale, ha proposto una classificazione delle diverse tipologie, prendendo come riferimento le differenti motivazioni che possono trovarsi alla base della scelta del ritiro.

Ritiro alternativo. Questa tipologia di hikikomori decide di isolarsi perché non accetta di adeguarsi alle dinamiche tipiche dell’esistenza moderna. Si tratta di una sorta di ribellione nei confronti della società, che viene vissuta in modo particolarmente negativo e come un’entità opprimente, volta a limitare la propria libertà personale.

Ritiro reazionale. Gli hikikomori che fanno parte di questa categoria vivono, o hanno vissuto, in contesti sfavorevoli che hanno contribuito ad aggravare una tendenza all’isolamento già preesistente. Spesso ricollegano la loro scelta di ritiro a un evento considerato come particolarmente traumatico, avvenuto all’interno del contesto famigliare, oppure nell’ambiente scolastico o in quello sociale e lavorativo. Tutto ciò contribuisce a generare forti reazioni d’ansia, vergogna e stress, che vengono generalizzate a tutti i contesti sociali e compromettono fortemente la loro capacità di stringere relazioni sociali soddisfacenti.

Ritiro dimissionario. Riguarda quegli hikikomori che non riescono a sostenere le pressioni di realizzazione sociale derivanti dalle aspettative genitoriali o, più in generale, dalla società. Questi hikikomori semplicemente decidono di “non giocare”, rifiutandosi di perseguire una qualsiasi carriera scolastica, lavorativa o sociale. Si sentono talmente oppressi dalle aspettative altrui che decidono di nascondersi, alleviando così, almeno in parte, tale sofferenza. Sembra essere proprio questa, ovvero la grande competizione sociale, una delle principali cause della rapida diffusione dell’hikikomori in Giappone.

Ritiro a crisalide. In questo caso l’hikikomori cerca nell’isolamento una fuga da quelle che sono le responsabilità e le incombenze dell’età adulta. Sente di non avere le competenze per affrontarle e questo sentimento provoca in lui una grande paura. L’esistenza viene approcciata con un appiattimento sul presente, mentre i pensieri sul futuro, fonte di grande ansia, vengono rifiutati ed evitati. In questo modo, è come se l’hikikomori volesse congelare il tempo, adottando consciamente o inconsciamente delle strategie mirate a tale scopo (ad esempio, invertendo il ritmo sonno-veglia per non soffrire la sensazione di essere inattivo durante il giorno).

LA STORIA DI MARIO, GIULIO E MARIA…

L’odissea di Mario, non ha né un inizio né una fine ben precisi. “La cosa peggiore di quel periodo è l’assenza di ricordi, di cose memorabili. Era come se non esistessi”. Di certo c’è solo che i suoi genitori, oberati di lavoro, lo lasciavano da solo molte ore al giorno già quando era poco più di un bambino. E che poi, a 16 anni, una delusione amorosa lo ha “devastato completamente”, annientando qualsiasi capacità di fidarsi delle altre persone: “Da quel momento ho smesso di uscire. Sono andato a casa, mi sono chiuso in camera e là sono rimasto”.

In quella stanza Mario rimane per otto anni. Le sue giornate si susseguono uguali. Leggere diventa il suo quotidiano. Divora tutti i libri che gli capitano tra le mani.  Dopo tutti quegli anni, Mario comincia finalmente a intravedere la luce in fondo al tunnel, grazie all’aiuto dell’associazione Hikikomori Italia, fondata nel 2013 dal dottor Marco Crepaldi.

E poi, c’è Giulio, il nome è di fantasia. Che sulla sua pagina social racconta la sua vita. Il video dura venti minuti. Dalle sue labbra non esce parola. Rimane in silenzio fissando la telecamera del cellulare. La scritta: “Cerco una compagna, non posso parlare”. Basta scorrere la bacheca Facebook per scoprire che lo fa ogni settimana e che ogni settimana non riceve risposta. Giulio ha 35 anni. Non esce di casa, non ha contatti con l’esterno e non lavora.

Come lui Maria, stessa necessità di rimanere prigioniera della sua camera. Digitando, da chissà quale città, pretende sostegno. Così continuando per altri centinaia di account, tutti membri della chat Hikikomori Italia. “Ho deciso di mollare completamente la vita sociale all’età di 14 anni – confida un utente – e ora ne ho 25. Da allora passo tutto il mio tempo al computer videogiocando o semplicemente navigando. Ho deciso di spostarmi nella realtà virtuale”.

Storie che si sovrappongono raccontate nella chat come nel forum: «La mia massima conquista – ammette una ragazza – è uscire in giardino, al mattino prima che tutti si sveglino, o di notte. Per me basta che non ci sia nessuno. È come scalare l’Everest ogni volta».  Poi c’è Anna, 46 anni, da due anni non mette piede fuori dal letto: «È una condizione triste, ma non posso fare altrimenti». I “motivatori”, chi ce l’ha fatta, si attivano ma dopo poche frasi iniziano gli attacchi reciproci e Anna decide di uscire dalla chat. Torna nel suo letto, questa volta lontana dai giudizi.

IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA SOLITUDINE

Uno dei principali fattori di rischio è l’allontanamento progressivo dalla società. Spesso gli amici, anche quelli di vecchia data, vengono rifiutati in modo apparentemente ingiustificato. Questo può essere considerato l’ultimo step dell’hikikomori, quello più grave e dal quale è più difficile tornare indietro. Perché la solitudine genera solitudine, generando un vero e proprio circolo vizioso.

A supporto di questa tesi un recente studio condotto in Belgio che ha coinvolto 730 adolescenti.
Ai partecipanti sono state presentate due diverse tipologie di scenario:

  • Scenario di inclusione sociale: “Viene inaugurata una nuova panineria in città. Alcuni dei tuoi compagni di classe ci andranno per pranzo e ti hanno chiesto se vuoi unirti a loro.”
  • Scenario di esclusione sociale: “Vedi su Facebook una foto di un compleanno di classe al quale tu non sei stato invitato.”

I partecipanti che precedentemente erano stati classificati come “più solitari” hanno vissuto la situazione di esclusione sociale in modo maggiormente negativo rispetto agli altri (manifestando alti livelli di rabbia, delusione e gelosia), attribuendo tale esclusione alle proprie caratteristiche personali (aspetto, carattere, ecc.). Ancor più interessanti, tuttavia, sono state le reazioni di questi ragazzi nella situazione di inclusione sociale (ovvero quando erano stati effettivamente invitati dagli amici). Anche in questo caso l’entusiasmo mostrato è risultato molto basso, semplicemente perché l’invito è stato vissuto come frutto del caso o comunque legato a un secondo fine.

LA SOLITUDINE GENERA SOLITUDINE

Questo sembra essere un meccanismo mentale che si verifica spesso negli hikikomori, persone che hanno un’alta considerazione di sè, ma che tendono a sviluppare una forte sfiducia nei confronti degli altri. Così, anche quando ricevono inviti spontanei e sinceri, tendono a interpretarli con sospetto, facendo pensieri del tipo: “Lo ha fatto solo perché si sentiva in obbligo, non gli interessa veramente se vengo anche io”, oppure “Vogliono solo prendersi gioco di me.”

In riferimento a questo meccanismo rafforzativo della solitudine, Weeks Molly, coautrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Neuroscienze della Duke University, spiega: “Questi risultati ci mostrano che gli adolescenti più solitari sembrano rispondere alle situazioni sociali in modo tale da perpetuare la propria solitudine. La ricerca futura dovrebbe indagare quando e come la solitudine temporanea diventa solitudine cronica e capire come si possa intervenire per evitare che ciò accada.”

PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE

Questo detto, seppur abusato, continua ad essere il consiglio migliore. Dalla sindrome si può uscire con l’aiuto di psicoterapeuti e psichiatri, ma molto si può fare già in termini di prevenzione.

  • Quando ci si accorge che il proprio figlio non vuole andare a scuola, occorre capire che potrebbe non essere un capriccio ma la manifestazione di un disagio. In questo caso non va riportato subito a scuola, ma bisogna iniziare ad allentare la pressione: il ritorno a scuola è l’obiettivo, non lo strumento.
  • Sospendi il giudizio sulla sua visione della vita e vai incontro a tuo figlio, comprendendo da dove origina la sua ansia, cioè nella difficoltà di stare nell’ambiente sociale della scuola. Spesso questi ragazzi diventano anche vittime di bullismo proprio per la loro diversità dal comune sentire.
  • Invita i ragazzi a coltivare interessi e passioni, insegnando ad accettare i complimenti come le critiche, impedendo che si fissino su modelli troppo alti e distanti, spesso inesistenti, altrimenti si vedranno sempre, inevitabilmente, inadeguati.
  • Non privare tuo figlio del computer, ma cerca di mantenere il più possibile una comunicazione aperta con lui
  • Non aver paura a rivolgersi a specialisti che possano aiutarti ad affrontare il problema

LA SINDROME DI STOCCOLMA: quando gli ostaggi solidarizzano con i rapitori e le vittime difendono i carnefici

Patricia Campbell, nel 1974, a 19 anni, fu rapita dallo SLA (esercito di liberazione simbionese), famigerato gruppo di estrema sinistra responsabile di molti crimini nell’America degli anni ’70. Dopo due mesi di reclusione Patty si unì attivamente al gruppo partecipando a diverse rapine in banca.

Gianni Ferrara, venne rapito all’età di 8 anni, mentre si trovava con la famiglia ai Caraibi e portato in Venezuela da 5 agenti di polizia dello Stato di Zulia che chiesero un riscatto di 650 milioni di lire. Gianni negli oltre 2 mesi di sequestro si affezionò a tal punto ai rapitori che quando questi vennero arrestati inveì contro la polizia.

Clara Rojas, politica colombiana, rapita nel 2002 dalle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), si innamorò di uno dei suoi rapitori dalla cui relazione nacque un bambino.

Shawn Hornbeck, 11 anni, rapito nel 2002 e ritrovato per puro caso nel 2007 mentre le autorità cercavano un altro bambino rapito dallo stesso sequestratore, Michael Devlin. Inizialmente Michael avrebbe voluto uccidere Shawn per eliminare il testimone di quella che fu una violenza carnale su minore, ma Shawn gli avrebbe proposto di divenire il suo schiavo personale in cambio della vita. Tre anni dopo il suo rapimento, Shawn mandò dal proprio cellulare dei messaggi ambigui ai genitori:  in uno chiedeva per quanto ancora avessero intenzione di cercare loro figlio, in un altro (scritto 57 minuti dopo), si scusava e chiedeva se avrebbe potuto scrivere una poesia per loro. Questi messaggi erano firmati Shawn Devlin.

C’è una cosa che accomuna tutte queste persone: il rapporto indissolubile, quasi perverso che sconfina nell’amore fra vittima e carnefice. E dal nome singolare: Sindrome di Stoccolma

COSA E’ LA SINDROME DI STOCCOLMA

E’ un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta quando chi è vittima di un particolare tipo di violenza fisica e/o psicologica, sviluppa un sentimento positivo nei confronti del suo aguzzino, del suo carnefice, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.

LA STORIA

Il nome origina da un caso di sequestro di persone avvenuto il 23 agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson, evaso dal carcere di Stoccolma dove era detenuto per furto, tentò una rapina alla Sveriges Kredit Bank e prese in ostaggio tre donne e un uomo.

La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore in spazi angusti durò sei giorni.  Il rapporto che sviluppò fu tale che quando Olsson disse alla polizia che avrebbe sparato alla gamba dell’uomo in ostaggio, questi pensò che il suo carceriere fosse stato gentile a voler sparare solo alla gamba e non a lui. Quando poi gli ostaggi vennero liberati quest’ultimi si preoccuparono dell’incolumità dei propri carcerieri e dopo essere usciti dall’edificio, si abbracciarono reciprocamente. Successivamente le vittime continuarono a provare sentimenti contrastanti e apparentemente irrazionali nei confronti dei rapitori. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori ai loro rapitori, e non alla polizia, perché non li avevano uccisi.

Nel corso delle sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che “avevano ridato loro la vita” e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

COSA ACCADE NELLA MENTE DELLE VITTIME

Benché a livello cosciente si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia “farsi amico” il sequestratore, in realtà la Sindrome di Stoccolma non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La sindrome, comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo “legame positivo”, tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l’ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un “NOI qui dentro” contro un “LORO che stanno fuori”.

L’ostaggio reagisce come può all’estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la negazione. Per sopravvivere la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo.

Solo dopo qualche tempo l’ostaggio comincia a rendersi conto, ad accettare e a temere la propria situazione, ma trova un’altra valvola di sicurezza nel pensare che non tutto è perduto poiché presto interverrà la polizia per salvarlo. La certezza di una salvezza “garantita” dall’Autorità, aiuta l’ostaggio nella propria difesa mentale, ma più passa il tempo senza che accada nulla -e in casi simili è facile perdere la cognizione del trascorrere dei minuti e delle ore-, più l’ostaggio tende inconsciamente a rinnegare l’autorità costituita che è diventata per lui, di fatto, una incognita. Logica conseguenza è l’inizio del processo di immedesimazione, o di “identificazione”, con il carceriere.

Nel contempo aumenta sempre più il timore di una conclusione tragica e tutti gli ostaggi intervistati hanno dichiarato di aver approfittato dell’occasione per fare un resoconto della propria vita; tutti hanno giurato a se stessi di cambiarla in meglio una volta terminata la brutta avventura, quasi che quest’ultima costituisse lo spartiacque tra la “vecchia” vita e una “rinascita”, completamente avulsa e indipendentemente dalla precedente.

Quando ostaggio e rapitore si trovano all’interno di uno stesso locale, magari angusto, sia esso il caveau di una banca, o la fusoliera di un aereo, una casa, una grotta, un treno, o altro ancora, si sviluppa un rapporto di “convivenza” che favorisce, e accelera, il reciproco processo di “umanizzazione”. In tal senso, quanto più il carceriere riesce a compenetrarsi nei problemi dell’ostaggio, o viceversa, tanto più aumenteranno le possibilità di sopravvivenza.

Alcune vittime di sequestri, che provarono la sindrome, a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, e una di esse ha sposato Olofsson. Altre vittime hanno cominciato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all’arresto.

GLI STATI EMOTIVI VISSUTI DALLA VITTIMA

Tentando una schematizzazione su quanto finora detto, potremmo individuare la sequenza degli stati emotivi che vive un ostaggio anche per prevenirli o almeno per meglio comprenderli:

  1. Incredulità
  2. Illusione di ottenere presto la liberazione
  3. Delusione per la mancata, immediata, liberazione da parte dell’autorità
  4. Impegno in lavoro fisico o mentale
  5. Rassegna del proprio passato

Nella stragrande maggioranza, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l’effetto della sindrome, è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale del carceriere, bensì da ciò che questi potrebbe fare e NON fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere, ecc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di sindrome poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sottocontrollola situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza.

Un’altra esperienza che accomuna gli ostaggi è l’immedesimazione nelle qualità umane dimostrate dal carceriere, anche quando queste siano state di breve durata.

Nei casi di rapina con ostaggi, se è vero che il rapinatore armato si trova “in trappola” e si ritiene “vittima” della polizia, è altrettanto vero che anche l’ostaggio tende a condividere tale atteggiamento. Quando il rapinatore viene sorpreso dalla polizia ed è “costretto” a prendere ostaggi, il suo problema è chiaro: fuggire vivo e, possibilmente, con i soldi. L’ostaggio si trova nella stessa identica posizione: vuole uscire vivo; il suo carceriere certo glielo consentirebbe, ma è la polizia a impedirlo. Il rapinatore si “umanizza”, perciò, agli occhi dell’ostaggio, è diventato “persona”, con problemi identici ai propri. L’insistenza della polizia nel richiedere al bandito di arrendersi, non fa altro che prolungare la prigionia e allontana la speranza di riguadagnare la libertà senza danni fisici.

Matura così, nella mente dell’ostaggio, il convincimento che: “se la polizia va via, anch’io me ne vado; se la polizia lascia andare il bandito, anch’io sarò libero!”. Comincia così la Sindrome di Stoccolma e, d’altro canto, il legame positivo, l’“umanizzazione” e il “rendersi persona”, che è alla base della sindrome, si può manifestare non solo nell’ostaggio, ma anche nel carceriere.

Dalla banca dati dell’FBI statunitense risulta che circa l’8% degli ostaggi ha manifestato sintomi della sindrome di Stoccolma.

LA SINDROME AL CINEMA

Se la tematica vi ha incuriosito, non potete perdervi alcune pellicole che sapranno ancor più di questo post, portarvi a vivere (in totale sicurezza) la sindrome di Stoccolma

  • Rapina a Stoccolma (2018): il film basato sulla rapina alla Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e da cui prende il nome la Sindrome
  • Un mondo perfetto: l’evaso rapisce un bambino e fugge attraverso il Texas. Durante il viaggio il bimbo sviluppa un legame tipico della sindrome di Stoccolma.
  • Il portiere di notte: la protagonista instaura un rapporto ossessivo e indissolubile con l’uomo che la teneva prigioniera nel campo di concentramento durante la II guerra mondiale
  • John Q: le persone sequestrate da un padre che non può far trapiantare il cuore del figlio si schierano dalla parte del loro sequestratore.
  • Quel pomeriggio di un giorno da cani