HIKIKOMORI: LA VITA IN UNA STANZA
Fino a qualche anno fa erano soprattutto giovani, oggi ad essere colpite sono anche persone di mezza età che, a carico di genitori anziani, né studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata chiusi in casa. A stento parlano con genitori, amici e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della rete e dei social con profili fittizi, unica finestra con la società che hanno abbandonato.
Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione e mezzo di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi. Nel nostro Paese l’associazione Hikikomori Italia parla di almeno 100 mila casi.
Da uno studio commissionato da una agenzia governativa a fine 2018, su individui fra i 40 e i 64 anni, è risultato che più di 600 mila persone possono essere considerate hikikomori, più delle 541 mila fra i 15 e 39 anni. L’80 per cento sono maschi, mentre il 46 per cento di questi reclusi per scelta ha dichiarato di vivere in questa situazione da almeno 7 anni, e il 34 per cento di loro dipende economicamente dai genitori.
I TRE STADI
I stadio. La persona comincia a percepire la pulsione all’isolamento sociale, senza però riuscire a elaborarla consciamente. Si accorge di provare malessere quando si relaziona con altre persone, trovando maggiore sollievo nella solitudine e nelle relazioni virtuali. I comportamenti che caratterizzano questo stadio sono: il rifiuto saltuario di andare a scuola o al lavoro utilizzando scuse di qualsiasi genere, il progressivo abbandono di tutte le attività “parallele” che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno, una graduale inversione del ritmo sonno-veglia e la preferenza per attività solitarie.
II stadio. Si comincia a elaborare consciamente la pulsione all’isolamento e ad attribuirla razionalmente ad alcune relazioni o situazioni sociali. È in questa fase che si cominciano a rifiutare le proposte di uscita degli amici, si abbandona progressivamente la scuola e il lavoro, si inverte totalmente il ritmo sonno-veglia e si trascorre la quasi totalità del proprio tempo chiusi in camera dedicandosi ad attività solitarie. I contatti sociali con il mondo esterno si limitano ora quasi esclusivamente a quelli virtuali, coltivati attraverso il web soprattutto utilizzando chat, forum e giochi online. Viene mantenuto anche un rapporto (spesso conflittuale) con gli altri membri della famiglia.
III stadio. La persona decide di abbandonarsi completamente all’isolamento sociale e si allontana progressivamente anche da genitori/famiglia e dalle relazioni sviluppate in rete. Quest’ultime diventano fonte di grande malessere, in un modo simile alle relazioni sociali canoniche. L’hikikomori sprofonda in un isolamento totale.
Ovviamente queste fasi non sono rigide, i vari stadi si alternano fra ricadute o miglioramenti e peggioramenti.
LE 4 TIPOLOGIE DI HIKIKOMORI
Maïa Fansten, sociologa francese che da anni si occupa di isolamento sociale, ha proposto una classificazione delle diverse tipologie, prendendo come riferimento le differenti motivazioni che possono trovarsi alla base della scelta del ritiro.
Ritiro alternativo. Questa tipologia di hikikomori decide di isolarsi perché non accetta di adeguarsi alle dinamiche tipiche dell’esistenza moderna. Si tratta di una sorta di ribellione nei confronti della società, che viene vissuta in modo particolarmente negativo e come un’entità opprimente, volta a limitare la propria libertà personale.
Ritiro reazionale. Gli hikikomori che fanno parte di questa categoria vivono, o hanno vissuto, in contesti sfavorevoli che hanno contribuito ad aggravare una tendenza all’isolamento già preesistente. Spesso ricollegano la loro scelta di ritiro a un evento considerato come particolarmente traumatico, avvenuto all’interno del contesto famigliare, oppure nell’ambiente scolastico o in quello sociale e lavorativo. Tutto ciò contribuisce a generare forti reazioni d’ansia, vergogna e stress, che vengono generalizzate a tutti i contesti sociali e compromettono fortemente la loro capacità di stringere relazioni sociali soddisfacenti.
Ritiro dimissionario. Riguarda quegli hikikomori che non riescono a sostenere le pressioni di realizzazione sociale derivanti dalle aspettative genitoriali o, più in generale, dalla società. Questi hikikomori semplicemente decidono di “non giocare”, rifiutandosi di perseguire una qualsiasi carriera scolastica, lavorativa o sociale. Si sentono talmente oppressi dalle aspettative altrui che decidono di nascondersi, alleviando così, almeno in parte, tale sofferenza. Sembra essere proprio questa, ovvero la grande competizione sociale, una delle principali cause della rapida diffusione dell’hikikomori in Giappone.
Ritiro a crisalide. In questo caso l’hikikomori cerca nell’isolamento una fuga da quelle che sono le responsabilità e le incombenze dell’età adulta. Sente di non avere le competenze per affrontarle e questo sentimento provoca in lui una grande paura. L’esistenza viene approcciata con un appiattimento sul presente, mentre i pensieri sul futuro, fonte di grande ansia, vengono rifiutati ed evitati. In questo modo, è come se l’hikikomori volesse congelare il tempo, adottando consciamente o inconsciamente delle strategie mirate a tale scopo (ad esempio, invertendo il ritmo sonno-veglia per non soffrire la sensazione di essere inattivo durante il giorno).
LA STORIA DI MARIO, GIULIO E MARIA…
L’odissea di Mario, non ha né un inizio né una fine ben precisi. “La cosa peggiore di quel periodo è l’assenza di ricordi, di cose memorabili. Era come se non esistessi”. Di certo c’è solo che i suoi genitori, oberati di lavoro, lo lasciavano da solo molte ore al giorno già quando era poco più di un bambino. E che poi, a 16 anni, una delusione amorosa lo ha “devastato completamente”, annientando qualsiasi capacità di fidarsi delle altre persone: “Da quel momento ho smesso di uscire. Sono andato a casa, mi sono chiuso in camera e là sono rimasto”.
In quella stanza Mario rimane per otto anni. Le sue giornate si susseguono uguali. Leggere diventa il suo quotidiano. Divora tutti i libri che gli capitano tra le mani. Dopo tutti quegli anni, Mario comincia finalmente a intravedere la luce in fondo al tunnel, grazie all’aiuto dell’associazione Hikikomori Italia, fondata nel 2013 dal dottor Marco Crepaldi.
E poi, c’è Giulio, il nome è di fantasia. Che sulla sua pagina social racconta la sua vita. Il video dura venti minuti. Dalle sue labbra non esce parola. Rimane in silenzio fissando la telecamera del cellulare. La scritta: “Cerco una compagna, non posso parlare”. Basta scorrere la bacheca Facebook per scoprire che lo fa ogni settimana e che ogni settimana non riceve risposta. Giulio ha 35 anni. Non esce di casa, non ha contatti con l’esterno e non lavora.
Come lui Maria, stessa necessità di rimanere prigioniera della sua camera. Digitando, da chissà quale città, pretende sostegno. Così continuando per altri centinaia di account, tutti membri della chat Hikikomori Italia. “Ho deciso di mollare completamente la vita sociale all’età di 14 anni – confida un utente – e ora ne ho 25. Da allora passo tutto il mio tempo al computer videogiocando o semplicemente navigando. Ho deciso di spostarmi nella realtà virtuale”.
Storie che si sovrappongono raccontate nella chat come nel forum: «La mia massima conquista – ammette una ragazza – è uscire in giardino, al mattino prima che tutti si sveglino, o di notte. Per me basta che non ci sia nessuno. È come scalare l’Everest ogni volta». Poi c’è Anna, 46 anni, da due anni non mette piede fuori dal letto: «È una condizione triste, ma non posso fare altrimenti». I “motivatori”, chi ce l’ha fatta, si attivano ma dopo poche frasi iniziano gli attacchi reciproci e Anna decide di uscire dalla chat. Torna nel suo letto, questa volta lontana dai giudizi.
IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA SOLITUDINE
Uno dei principali fattori di rischio è l’allontanamento progressivo dalla società. Spesso gli amici, anche quelli di vecchia data, vengono rifiutati in modo apparentemente ingiustificato. Questo può essere considerato l’ultimo step dell’hikikomori, quello più grave e dal quale è più difficile tornare indietro. Perché la solitudine genera solitudine, generando un vero e proprio circolo vizioso.
A supporto di questa tesi un recente studio condotto in Belgio che ha coinvolto 730 adolescenti.
Ai partecipanti sono state presentate due diverse tipologie di scenario:
- Scenario di inclusione sociale: “Viene inaugurata una nuova panineria in città. Alcuni dei tuoi compagni di classe ci andranno per pranzo e ti hanno chiesto se vuoi unirti a loro.”
- Scenario di esclusione sociale: “Vedi su Facebook una foto di un compleanno di classe al quale tu non sei stato invitato.”
I partecipanti che precedentemente erano stati classificati come “più solitari” hanno vissuto la situazione di esclusione sociale in modo maggiormente negativo rispetto agli altri (manifestando alti livelli di rabbia, delusione e gelosia), attribuendo tale esclusione alle proprie caratteristiche personali (aspetto, carattere, ecc.). Ancor più interessanti, tuttavia, sono state le reazioni di questi ragazzi nella situazione di inclusione sociale (ovvero quando erano stati effettivamente invitati dagli amici). Anche in questo caso l’entusiasmo mostrato è risultato molto basso, semplicemente perché l’invito è stato vissuto come frutto del caso o comunque legato a un secondo fine.
LA SOLITUDINE GENERA SOLITUDINE
Questo sembra essere un meccanismo mentale che si verifica spesso negli hikikomori, persone che hanno un’alta considerazione di sè, ma che tendono a sviluppare una forte sfiducia nei confronti degli altri. Così, anche quando ricevono inviti spontanei e sinceri, tendono a interpretarli con sospetto, facendo pensieri del tipo: “Lo ha fatto solo perché si sentiva in obbligo, non gli interessa veramente se vengo anche io”, oppure “Vogliono solo prendersi gioco di me.”
In riferimento a questo meccanismo rafforzativo della solitudine, Weeks Molly, coautrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Neuroscienze della Duke University, spiega: “Questi risultati ci mostrano che gli adolescenti più solitari sembrano rispondere alle situazioni sociali in modo tale da perpetuare la propria solitudine. La ricerca futura dovrebbe indagare quando e come la solitudine temporanea diventa solitudine cronica e capire come si possa intervenire per evitare che ciò accada.”
PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE
Questo detto, seppur abusato, continua ad essere il consiglio migliore. Dalla sindrome si può uscire con l’aiuto di psicoterapeuti e psichiatri, ma molto si può fare già in termini di prevenzione.
- Quando ci si accorge che il proprio figlio non vuole andare a scuola, occorre capire che potrebbe non essere un capriccio ma la manifestazione di un disagio. In questo caso non va riportato subito a scuola, ma bisogna iniziare ad allentare la pressione: il ritorno a scuola è l’obiettivo, non lo strumento.
- Sospendi il giudizio sulla sua visione della vita e vai incontro a tuo figlio, comprendendo da dove origina la sua ansia, cioè nella difficoltà di stare nell’ambiente sociale della scuola. Spesso questi ragazzi diventano anche vittime di bullismo proprio per la loro diversità dal comune sentire.
- Invita i ragazzi a coltivare interessi e passioni, insegnando ad accettare i complimenti come le critiche, impedendo che si fissino su modelli troppo alti e distanti, spesso inesistenti, altrimenti si vedranno sempre, inevitabilmente, inadeguati.
- Non privare tuo figlio del computer, ma cerca di mantenere il più possibile una comunicazione aperta con lui
- Non aver paura a rivolgersi a specialisti che possano aiutarti ad affrontare il problema