Qualche notte fa, incapace di prendere sonno, facendo zapping da un canale all’altro, sono incappato in un film culto Frankenstein Junior di Mel Brooks, in cui il giovane medico Frederick Frankenstein scopre un fluido magnetico per mezzo del quale, innestando un nuovo cervello in un uomo morto, lo riporta in vita.
Dibattito infinito quello sul trapianto di cervello, oggi molto meno chimera grazie agli sviluppi e le scoperte in ambito medico, della genetica e delle neuroscienze, ma ancora di difficile realizzazione. Almeno su un paziente vivo.
Goloso di saperne di più, ho trascorso parte delle successive notti a cercare indizi per capire se il trapianto di testa, è una speculazione o il prossimo futuro. E ho scoperto che tenere in vita le cellule del cervello è tutt’altro che semplice.
In un articolo pubblicato sul sito di Medicina tedesco Ärzte Zeitung (poi rimosso, ma di cui rimane una copia cache), si legge che un team di ricercatori dell’Università di Yale diretto da Nenad Sestan sarebbe riuscito a ripristinare parzialmente le funzioni cerebrali di 32 cervelli di maiale, collegati al sistema BrainEx, in grado di fornire la giusta circolazione sanguigna e temperatura corporea agli organi.
«Dopo sei ore di perfusione, i ricercatori hanno osservato una riduzione delle cellule morte e hanno trovato evidenza di alcune funzioni cellulari, come l’attività della sinapsi. Tuttavia, non c’erano segni di funzioni cerebrali come la coscienza e la percezione».
Scopro altresì che quello di Sestan non è il primo studio sull’argomento e scartabellando qui e là, ho dovuto mettere molto impegno nel tenere a freno la fantasia e rimanere sul concreto.
Infatti pur sapendo che il lavoro di Sestan aveva risuscitato alcunchè e nemmeno ripristinato coscienza e percezione, mi piaceva credere di poter trovare di lì a poco, qualche altro studio che dicesse il contrario. Alla fine mi sono dovuto accontentare del fatto che questi esperimenti sono utili nel trattare danni cerebrali e capire qualcosa di più di un organo altamente complesso.
Niente, fra ciò che leggevo, dava risposta alla domanda più importante: è possibile ripristinare completamente la funzione cerebrale?
Ricerche del 2018 pubblicate sulla rivista del MIT, hanno dimostrato che il cervello potrebbe sopravvivere anche 36 ore dopo la separazione dal corpo. La ricerca riguardava anche allora dei cervelli di maiale sottoposti nuovamente a flusso sanguigno, i risultati vennero presentati al National Institutes of Health negli Stati Uniti nel marzo 2018.
Il neuroscienziato della Yale University ha rivelato che una squadra da lui guidata aveva sperimentato tra 100 e 200 cervelli di maiale ottenuti da un macello, ripristinando la circolazione usando un sistema di pompe, riscaldatori e sacchi di sangue artificiale riscaldati a temperatura corporea.
IL TRAPIANTO DI CERVELLO E’ TUTT’ALTRA COSA
Anche in quel caso non vi era alcuna evidenza di un ripristino di coscienza nei cervelli, mentre è stato riscontrato un prolungamento della vita di una parte delle cellule cerebrali. La tecnica ricorda quella utilizzata per conservare gli organi destinati al trapianto; a parte questo non può però essere riscontrata una tecnica in grado di riportare in vita le persone, magari dopo una decapitazione, tanto meno eseguire dei «trapianti di testa», possibili solo ed esclusivamente col decesso del paziente.
Il più recente articolo firmato da Sestan pubblicato su Current Opinion in Neurobiology «Shared and derived features of cellular diversity in the human cerebral cortex» , riguarda l’organizzazione dei neuroni nella corteccia cerebrale umana, quella dove è possibile trovare anche le funzioni che ci rendono coscienti.
Oltre Sestan un altro neuroscienziato ha portato l’attenzione su di sé, proclamando nel 2017, durante una conferenza stampa a Vienna, un’operazione che sarebbe stata effettuata in Cina su due cadaveri, dove la testa di uno e il corpo di un altro, sarebbero stati “assemblati” connettendo colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento lungo 18 ore.
A ben vedere un intervento su due cadaveri non è un trapianto. Almeno non dal punto di vista tecnico. E dunque non è corretto parlare di trapianto di testa.
Il neurochirurgo in questione è il torinese Sergio Canavero, della Harbin Medical University, in Cina.
UN TRAPIANTO SU UN MORTO CHE UTILITA’ HA?
Così mi sono chiesto: se i pazienti arrivano sul tavolo operatorio già morti, che senso ha un trapianto?
A fornirmi la risposta è Dean Burnett, neuroscienziato e giornalista, sul Guardian, «forse la procedura adottata è stata una buona dimostrazione di come “attaccare” nervi e vasi sanguigni su larga scala, ma con ciò? È solo l’inizio di ciò che serve perché un corpo funzioni. Puoi assemblare due metà di auto diverse e definirlo un successo, se vuoi, ma nel momento in cui giri la chiave e il tutto esplode, la maggior parte delle persone avrebbe qualche difficoltà a sostenere che è stata una brillante idea».
PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE TRAPIANTARE UNA TESTA?
Dal punto di vista medico, il trapianto totale di corpo presenta almeno tre grandi, invalicabili criticità: le migliaia di nervi contenuti nei due monconi del midollo spinale, la temperatura del cervello e il problema del rigetto.
Se alcuni organi, come il cuore, sono relativamente facili da trapiantare (perché basta connettere un numero limitato di vasi), altri sono praticamente impossibili da trasferire da un corpo a un altro. Uno di questi è il midollo spinale: perché possa tornare funzionante ci sono milioni di connessioni neurali che andrebbero ripristinate, e finora non è mai stato possibile un trapianto simile.
Sarebbe un’impresa monumentale: nel 2017 è stata trapiantata con estrema pazienza e difficoltà, una mano. Altri successi in fatto di trapianti, come quello di volto, di pene, di utero, hanno richiesto decenni di tentativi e sono già considerati rivoluzionari.
Canavero dice di aver già eseguito con successo un trapianto di testa su ratti e scimmie, ma anche queste affermazioni sono discutibili: il primate non si è mai risvegliato dall’operazione, ed è stato lasciato attaccato alle macchine che lo tenevano in vita per 20 ore “per ragioni etiche“.
Un altro non trascurabile dettaglio che rende difficile trapiantare una testa, riguarda il fatto che il cervello inizia a degradarsi e morire dopo pochissimi minuti senza ossigenazione, riportando danni permanenti. Anche raffreddandolo il più possibile, lo si potrebbe tenere in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricucire con pazienza le milioni di connessioni neurali? Probabilmente no, e ogni danno cerebrale annullerebbe l’utilità di un trapianto totale di corpo (almeno prima il cervello funzionava).
Infine, quale sarebbe l’impatto psicologico sul paziente? A differenza dei trapianti di organi interni, quelli di parti visibili come il volto, le mani o il pene presentano altissime probabilità di rifiuto psicologico da parte del paziente, che pure ne sentiva la necessità.
Il successo del primo trapianto di pene è stato in parte offuscato dalle richieste del paziente di rimuovere i nuovi genitali, che sentiva di non riconoscere. Avviene spesso anche con le mani – con i pazienti che si trovano a preferire protesi visibilmente finte ad appendici appartenute a qualcun altro. La sensazione di avere addosso un intero corpo (morto) di uno sconosciuto potrebbe avere effetti devastanti sulla psiche. Che dire poi dei farmaci antirigetto presi per evitare che un corpo appena arrivato rigetti il “vecchio” cervello? Chi sarebbe a quel punto il legittimo proprietario?
Domande legittime che mi riportano a un altro film di qualche anno fa, non meno ricco di irrisolti, da lasciarmi anche allora insonne.
BOGOWIE: L’OPERAZIONE E’ RIUSCITA
Bogowie narra di Religa: il primo medico a effettuare un trapianto di cuore in Polonia nel 1985. Un’operazione, avvenuta diciotto anni dopo quella del pioniere sudafricano Christian Barnaard ma che resta rivoluzionaria visto il luogo, il contesto storico e le precarie condizioni in cui venne effettuata.
Erano in molti, colleghi compresi, a osteggiare il cardiochirurgo, accusato di mettere a repentaglio la vita dei propri pazienti per mettersi in mostra. Dall’altro, milioni di polacchi erano diffidenti nei confronti di un trapianto cardiaco per motivi morali e religiosi visto l’altissimo valore simbolico del cuore visto come sede di anima e sentimenti per molti fedeli cattolici. ‘Mentre invece sappiamo benissimo che si tratta di un muscolo‘ ribadisce Zbigniew Religa.
Bogowie, non a caso, significa ‘Dei’ ed è proprio di questo che Religa e i suoi colleghi chirurghi della clinica di Zabrze, in Slesia, sono stati accusati. Medici che, lungi dall’arrogarsi il diritto di sostituirsi a Dio, ritengono invece di avere il dovere morale e professionale di tentare di salvare uomini e donne.
Pazienti spesso ritenuti casi disperati e, come tali, a loro volta consapevoli di giocarsi il tutto per tutto pronti percio’ ad affidarsi alle mani e ai ferri dei giovani e coraggiosi chirurghi polacchi.
Al pari delle persone che decidono di sottoporsi a trapianto cardiaco nella sua clinica, Religa ha molto da perdere in caso di insuccesso: la vita privata ma anche i preziosi finanziamenti che gli consentono di tenere aperta la clinica, oltre al prestigio professionale. Ma soprattutto Religa rischia di compromettere irrimediabilmente la fiducia in se stesso e nella propria capacità di salvare il prossimo. Non a caso ogni operazione fallita, ogni crisi di rigetto post-operatorio, ogni paziente scomparso lo portano a scivolare nell’alcool e nell’isolamento.
Chissà – rifletto mentre le ultime scene del film sfumano -, forse qualcuno vuole davvero sostituirsi a Dio, ma credo che i più vogliano solo salvare uomini e donne malati. Difficile stimare i confini fra dove finisce l’etica e dove inizia la brama personale. Un tempo era il cuore, oggi è il cervello.
Buona riflessione a tutti.
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I GRANDI VANTAGGI DEL FANTASTICARE A OCCHI APERTI
BlogQuante volte ci ritroviamo, ogni giorno, incantati a guardare al di là di una vetrata, un finestrino, persi nei nostri pensieri? Così tante che spesso nemmeno ne siamo coscienti.
Sognare ad occhi aperti è una delle attività più utili che regaliamo a noi stessi, e non una perdita di tempo come ci siamo spesso sentiti dire, fin dalla più tenera età. Secondo le ricerche scientifiche infatti fantasticare a occhi aperti ci aiuta a realizzare i nostri obiettivi, ci rivela le nostre speranze più intime, i desideri e le paure.
Eric Klinger, psicologo all’Università del Minnesota, nonché pioniere del settore, afferma che esiste un vantaggio evolutivo in questa capacità di distrazione della mente. “Sognare ad occhi aperti tende a confermare ciò che conosciamo già di noi stessi anziché fornirci nuove informazioni. E’ in pratica un meccanismo di richiamo, capace di aumentare la probabilità che le occupazioni principali restino invariate, senza che ci perdiamo in troppi obiettivi fuorvianti”.
UN BISOGNO CHE NASCE DA BAMBINI
Fantasticare si manifesta fin da bambini: sono la continuazione di un modo di pensare magico tipico dell’infanzia: il bambino pensa che la realtà sia influenzabile dai suoi desideri. Immagina di riuscire a volare o di poter muovere gli oggetti a distanza. Questo ricorda la mentalità degli uomini primitivi, che pensavano di controllare la natura attraverso rituali come la danza della pioggia, così come le credenze magiche.
Secondo gli studi della psicologa Marjorie Taylor (Università dell’Oregon), più del 60% dei bambini fra i 3 e gli 8 anni ha avuto un amico immaginario con cui giocare. Taylor ribalta un pregiudizio passato verso i compagni immaginari, come indice di disagio: «Hanno un ruolo salutare nello sviluppo cognitivo ed emotivo dei bambini». Offrendo, come amici veri, compagnia, sostegno, protezione.
Attraverso il gioco, i bambini creano fantasie che consentono di andare oltre i loro limiti. Sono consapevoli che il “fare finta di” non è la realtà ma, fino a che il gioco dura, è come se lo fosse. Anche l’adulto che fantastica sperimenta quel senso di onnipotenza: abbatte le barriere fra passato, presente e futuro e vive l’illusione di manipolare la realtà a suo piacimento. Con la fantasia non può azzeccare la schedina del totocalcio, ma può immaginare ciò che farebbe se diventasse milionario.
FREUD E I SOGNI
Fra i primi a scoprire i meccanismi psicologici della fantasia fu il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud: per lui la fantasia era il modo per esprimere bisogni insoddisfatti che altrimenti non potrebbero emergere.
L’uomo tende al piacere, ma la realtà lo costringe a rinunciarvi: così la fantasia consente di accedere a mondi in cui ogni desiderio può essere soddisfatto, evadendo dai limiti del quotidiano. I sogni a occhi aperti ci consolano per ciò che non siamo o non abbiamo, mitigano le nostre ansie, ci consentono di annullare, almeno nella mente, gli errori del passato.
L’attività immaginativa non è solo un sollievo. Ci serve “concretamente”, perché è anche uno strumento per anticipare il futuro: quando pensiamo a come arredare il salone di casa, alla reazione che avrà il nostro partner quando vedrà un regalo, mettiamo a frutto le nostre capacità di immaginazione.
LE FANTASIE SONO TUTTE UGUALI?
Durante un sogno ad occhi aperti, siamo leggermente distaccati dalla nostra situazione immediata. Questo significa che siamo più ricettivi alle idee generate all’interno del nostro subconscio. I daydreams sono pertanto diversi per ognuno. Esistono però due temi che accomunano il modo di assentarsi delle persone dalla vita reale: “l’eroe conquistatore” e “la martire sofferente“.
Le ricerche hanno stabilito che gli uomini tendono a vedersi come conquistatori mentre le donne, che solitamente tendono a rimuginare di più sulle emozioni, come martiri!
La trama del sogno ad occhi aperti di un uomo si incentra prevalentemente nel vedersi potente. L’uomo visualizza scenari come quello di volare o salire verso l’alto che denotano la volontà di superare paure personali. Fantasie di questo tipo riflettono la necessità di avere il controllo e superare le frustrazioni della vita. Sognare ad occhi aperti per una donna, è legato più alla sensazione di essere incompresa e fraintesa; cosicché la sognatrice immagina situazioni in cui altre persone vengono a scusarsi per il loro egoismo e a riconoscere quanto ella sia una persona meravigliosa.
Sognare ad occhi aperti si può verificare in caso di stress, frustrazione e noia, quando ci sentiamo fuori posto nel mondo reale, e così immaginiamo situazioni alternative.
A volte il sogno ad occhi aperti può essere terapeutico: può cambiare il nostro stato d’animo, può rilassarci e intrattenerci. Essere in grado di rivedere un sogno ad occhi aperti che ci procura sicurezza o felicità, può aiutarci a sopportare situazioni difficili nella realtà.
OGNI FANTASIA HA UNA SUA ETA’
Sognare ad occhi aperti è differente anche per questioni di età. I bambini e gli adolescenti sognano ad occhi aperti molto di più rispetto agli adulti. Per loro, sognare ad occhi aperti è un modo fondamentale di provare diverse identità ed esplorare le possibilità della vita in un ambiente sicuro.
Man mano che invecchiamo, i nostri obiettivi sono più definiti e realizzabili, in questo modo ci affidiamo molto meno al fantasticare, sebbene non finisca mai la nostra tendenza a immaginare il futuro.
Più si diventa anziani, meno fantastichiamo su sesso, avvenimenti romantici o su scenari eroici. Abbiamo anche un minor numero di sogni ad occhi aperti aggressivi e di ostilità.
Coloro che sognano di più ad occhi aperti non hanno una personalità più distaccata dalla realtà. La ricerca intrapresa dagli psicologi Steven Lynn e Judith Rhue ha svelato il dato che chi sogna di più rispetto ai più razionali, può addirittura avere un leggero vantaggio creativo.
A riprova di questo, lo psicologo Jerome Singer dell’Università di Yale, sostiene che i bimbi fantasiosi sono meno aggressivi, hanno più controllo sulle loro emozioni e le azioni, e sono più empatici rispetto agli altri bambini.
SOGNARE AD OCCHI APERTI E’ UN BENE?
L’immaginazione è uno strumento di adattamento: senza non potremmo concepire alternative al presente, prefigurarci scenari futuri, né rivedere il passato, rielaborandolo in modo creativo per servircene nel presente e nel futuro. Per esempio, non potremmo ripensare alle disavventure di una vacanza in barca e tener conto dei nostri errori fantasticando sul prossimo viaggio.
Le fantasie sono poi un “teatro privato”, in cui l’autore è allo stesso tempo uno degli attori (di solito, il protagonista) e lo spettatore: non è ammesso altro pubblico… La fantasia è infatti custodita gelosamente: si è disposti, più spesso, a raccontare i propri sogni notturni che quelli a occhi aperti. Può essere per pudore, per vergogna, per il dubbio di non essere compresi. Ma spesso è anche «la paura di perdere il potere della fantasia» spiega Ethel S. Person, psicanalista e docente alla Columbia University. Abbiamo cioè paura che, una volta raccontata ad altri, la fantasia possa affievolirsi senza più darci piacere o alleviare le nostre tensioni. Altre volte, si preferisce viverla segretamente per evitare il confronto con la realtà: la faccia perplessa di un amico che ci fa capire che un nostro sogno è irrealizzabile.
Aggiunge Person: «La fantasia è un gioco di prestigio che la persona fa senza capire come: essa agisce per far sì che una parte di noi non capisca quello che un’altra parte vuole». Del resto, funzionano così anche i sogni notturni: sono manifestazioni di desideri inconsci mascherati, come a volte le fantasie. Ma c’è una differenza fondamentale: nei sogni c’è un totale sconvolgimento dei nessi logici (sequenze temporali sfasate, incoerenze); i sogni a occhi aperti, invece, sono prodotti a mente consapevole e, quindi, sono più aderenti alla realtà. Con la fantasia possiamo immaginarci fra le montagne del Nepal e poi tornare al presente per pensare a che cosa fare per cena, ma ci rendiamo conto di vagare in diverse dimensioni del tempo e dello spazio. Nel sogno, invece, possiamo trovarci contemporaneamente sui monti e in cucina.
Fantasticare ad occhi aperti è quindi un bene per il nostro equilibrio, ma anche “una risorsa personale fondamentale per affrontare la vita”, per usare le parole di Klinger.
Quindi a chi ci riprende perché ci vede sognanti e distratti, ora sappiamo cosa rispondere.
FAKE NEWS: EVITARLE NON E’ DIFFICILE COME SEMBRA. ANCHE QUANDO SI TRATTA DI CORONAVIRUS
BlogE’ difficile contare le fake news che girano intorno al coronavirus (e non solo…). Così tante che è difficile riuscire a districarsi e capire ciò che ha fondamento da ciò che non lo ha. Ciò a cui bisogna credere e a cosa no. Come comportarsi, a cosa fare attenzione e se è davvero il caso di allarmarsi o meno.
Infatti, dati alla mano, il 48% degli italiani dichiara di aver creduto almeno qualche volta nell’ultimo anno ad una notizia che poi si è rivelata falsa, e di questi addirittura un terzo l’ha condivisa sui social, contribuendo quindi all’inarrestabile diffusione delle bufale.
LA PAROLA ALLA PSICOLOGIA SOCIALE
Perché fake news, teorie complottiste e credenze manifestamente illogiche continuano a diffondersi e sono così difficili da estirpare?
La spiegazione ce la dà la teoria della dissonanza cognitiva, elaborata negli anni ’50 dallo psicologo sociale Leon Festinger.
Quando una persona attiva due idee o comportamenti che sono tra loro coerenti, si trova in una situazione emotiva soddisfacente (consonanza cognitiva); al contrario, se le due rappresentazioni sono tra loro contrapposte o incompatibili si troverà a vivere una difficoltà nel decidere e giudicare.
Tale incoerenza produce una dissonanza cognitiva, che l’individuo cerca automaticamente di eliminare o ridurre a causa del marcato disagio psicologico che comporta; questo porta all’attivazione di vari processi elaborativi, che permettono di compensare la dissonanza. E tutto questo, senza alcun nesso con l’appropriatezza o la bontà del risultato finale: ciò che conta è semplicemente ritrovare un senso di coerenza interna.
Un esempio si può avere quando una persona disprezza esplicitamente i ladri, ma compra un oggetto a un prezzo troppo basso per non intuire che sia di provenienza illecita. Secondo Festinger, per ridurre questa contraddizione lo stesso individuo potrà smettere di disprezzare i ladri (modificando quindi l’atteggiamento), o non acquistare l’oggetto proposto (modificando quindi il comportamento). O addirittura indignarsi perché si autoconvince che qualcuno – specificato oppure no – deve averlo ingannato al proposito (modificando quindi le sue opinioni sul contesto).
UN MECCANISMO DIABOLICO
In un famoso studio, Festinger si infiltrò in una setta guidata da Dorothy Martin, una casalinga che profetizzava un’apocalittica inondazione in cui lei e i suoi seguaci sarebbero stati salvati su dischi volanti da uomini dallo spazio chiamati i Guardiani. Inutile dire che nessun uomo dello spazio si manifestò al momento indicato dalla profetessa, che però continuò a rivedere le sue previsioni.
Gli extra terrestri non si erano presentati nel giorno previsto, ma senza dubbio sarebbero arrivati l’indomani, e così via. I ricercatori guardavano affascinati mentre i credenti continuavano a credere – nonostante tutte le prove a sfavore – e anzi raddoppiavano il loro zelo nel fare proseliti. Un meccanismo “diabolico” che può essere applicato per comprendere certi fenomeni di massa.
NESSUNO E’ IMMUNE
Tornando alle fake news, non sbagliamo se diciamo che non risparmiano nessuno. Maggiormente inclini a credere alle fake news, sono le persone che risultano anche più facile preda delle mode relative alle novità, più dipendenti dall’approvazione sociale, ma soprattutto meno sicure e soddisfatte di sé e più lontane e scettiche nei confronti della ricerca scientifica.
L’ILLUSIONE DI MOSE’
Perchè siamo così facili vittime di fake news e bufale? Prima di cercare la risposta, provate a rispondere a questa semplice domanda: Quanti tipi di animali portò Mosè nell’arca?
Se state tirando ad indovinare, non sforzatevi, anzi rileggete la domanda. Con un po’ di attenzione noterete che l’arca non era di Mosè, bensì di Noè. Semplicemente l’idea degli animali che vanno nell’arca, crea nel nostro cervello un contesto biblico e Mosè non risulta anomalo in tale contesto. Non è qualcosa che uno si aspetta, ma vedere associata l’arca a quel nome non è sorprendente.
Questo fenomeno è conosciuto come “Illusione di Mosè”.
Sono diversi gli studi di psicologia cognitiva che dimostrano che siamo naturalmente portati a dare per sicuro quello che leggiamo, senza sentire l’esigenza di verificarlo. In pratica, il nostro cervello non è progettato per riconoscere al volo le bufale, cioè non utilizza sempre tutte le informazioni in suo possesso per distinguere la verità da una menzogna.
C’è poi anche il marketing a complicarci la vita: se qualcosa, in questo caso una notizia, “ci piace”, sarà più semplice considerarla valida. Perché siamo esseri umani fatti di razionalità ed emotività, ma è l’area del cervello deputata a quest’ultima la prima ad attivarsi di fronte a un impulso, e con essa quei bias di conferma verso le fonti che ci assecondano, alla ricerca di una coerenza narrativa molto difficile da scalfire una volta formatasi.
Si tratta dunque di meccanismi quasi “automatici” che spesso ci portano a dare per buono quello che leggiamo, facendoci incappare nella trappola della notizia falsa.
COME DIFENDERSI DALLE FAKE NEWS
CYBERBULLISMO: QUANDO LE PAROLE UCCIDONO
BlogUn ragazzo su tre dice di essere stato vittima di atti di bullismo online, 1 su 5 di aver lasciato la scuola proprio per questo. E’ il risultato di un sondaggio condotto dall’Unicef su un campione di 170mila ragazzi fra i 13 e i 24 anni di 30 diversi Paesi, che ha allarmato il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia e i partner della ricerca.
Parlando apertamente e in anonimato attraverso la piattaforma Unicef per il coinvolgimento dei giovani (U-Report), tre quarti degli adolescenti hanno dichiarato che i social network, fra cui Facebook, Instagram, Snapchat e Twitter, sono i luoghi in cui si verifica più comunemente il bullismo online. “Avere classi ‘connesse’ significa che la scuola non finisce più quando l’alunno esce dall’aula, e, sfortunatamente, non finisce nemmeno il bullismo scolastico”, ha dichiarato il Direttore generale dell’Unicef Henrietta Fore. “Migliorare l’esperienza formativa dei giovani significa dar conto dell’ambiente che incontrano, sia online sia offline. In tutto il mondo, i giovani ci stanno dicendo che sono stati bullizzati online, che ciò sta colpendo la loro istruzione e che vogliono che finisca”.
E anch’io, nel mio piccolo, non potevo non parlare di un fenomeno tanto dilagante, essendo febbraio il mese della sensibilizzazione e in particolare il 7 febbraio la Giornata Nazionale contro bullismo e cyberbullismo.
Solo nelle scuole secondarie di Roma, la città in cui sono nato e cresciuto, su un campione di 1022 studenti, è emerso che il 66,9% dei giovani è stato, almeno una volta, vittima di bullismo e che l’81.3% è stato spettatore. Il 57,3% delle vittime afferma di aver subito episodi di violenza all’interno della classe; il 34,9% all’interno degli istituti scolastici.
Difficile non riflettere su quanto bullismo e cyberbullismo siano piaghe sociali dilaganti.
IL BULLISMO
Il termine bullismo è utilizzato per designare un insieme di comportamenti in cui qualcuno, ripetutamente, fa o dice cose per avere potere su un’altra persona e dominarla.
Il bullo è caratterizzato da:
Esistono, dunque, due forme di bullismo:
IL CYBERBULLISMO
Il cyberbullismo è un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi. Ha caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.
Nel 2006, la direttrice del Center for Safe and Responsible Internet Use statunitense, Nancy Willard, ha proposto una categorizzazione del fenomeno, basata sul tipo di comportamento. Le tipologie di cyberbullismo individuate sono sette, e sono attualmente prese in considerazione per distinguere i vari casi:
Nel 2007, è stata introdotta dall’educatore Smith una nuova forma di cyberbullismo:
Happing shapping: il cyberbullo, da solo o in gruppo, riprende la vittima con lo smartphone mentre la picchia. Il video poi viene pubblicato sul web allo scopo di deridere la vittima.
Bullismo e cyberbullismo sono fenomeni complessi che non possono essere sottovalutati, anche perché capaci di lasciare sulle vittime cicatrici indelebili.
A supporto di questo dato sconcertante, uno studio inglese ha cercato di stabilire un legame tra cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario, individuando, nei soggetti coinvolti nel fenomeno, vittime, bulli e bulli-vittime, la tendenza ad entrare in contatto con contenuti web riguardanti autolesionismo o suidicio.
CYBERBULLISMO E SUICIDIO: lo studio
Lo studio, condotto da Anke Gorzig (LSE’s Department of Media and Communications) ha portato all’attenzione il legame tra cyberbullismo e alcuni comportamenti disfunzionali, che potrebbero essere predittori di tendenze suicidarie.
In particolare, è stato utilizzato un campione composto da 25 mila bambini europei tra i 9 e i 16 anni. Il 6% del campione riportava di essere vittima di cyberbullismo, il 2,4% riportava di compiere atti di cyberbullismo e un 1,7% di essere sia vittima sia bullo. Di questi, il 4,1% riportava problemi nella gestione delle emozioni, il 16,8% problemi comportamentali, il 15,8% aveva problemi a relazionarsi con i propri pari.
Per quanto riguarda i comportamenti, è stata presa in considerazione la visione di contenuti web riguardanti autolesionismo o suicidi.
Nell’intero campione il 6,8% dei soggetti riportava la visione di contenuti web di autolesionismo, il 4,3% visionava contenuti web riguardanti il suicidio. Questi soggetti costituivano una bassa percentuale di coloro i quali non erano coinvolti in fenomeni di cyberbullismo. Invece, circa 1/5 dei delle vittime e dei bulli e 1/3 dei soggetti sia bulli sia vittime, era in contatto con contenuti web di autolesionismo; inoltre tra le vittime di cyberbullismo e tra coloro che ricoprivano il ruolo sia di vittime sia di bulli, era alta la percentuale di bambini che entravano a contatto con contenuti web riguardanti suicidi, mentre questa percentuale rimaneva bassa per i soggetti identificati solo come bulli.
Il trend relativo a chi entrava a contatto con contenuti di autolesionismo era due volte più alto per il gruppo delle vittime e per il gruppo dei bulli, e da tre a quattro volte più alto per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti nel fenomeno; invece il trend relativo a chi entrava in contatto con contenuti di suicidio era da due a tre volte più alto per le vittime e per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti.
C’è poco da aggiungere a questi dati, se non che occorre agire per prevenire un comportamento che sembra espandersi come un incendio in una giornata di forte vento, con il rischio che diventi non solo dilagante ma inarrestabile.
LE STRATEGIE IN AIUTO AI PIU’ GIOVANI
Per fortuna alcune strategie preventive si possono attuare, utili soprattutto ai più giovani:
CONSIGLI PER I GENITORI
E se fosse il genitore a dover chiedere aiuto per i propri figli? Per capire se il proprio figlio o figlia è vittima di Cyberbullismo, ecco i segnali più evidenti a cui porre attenzione
Ascolto, consapevolezza, informazione e prevenzione sono le parole chiave su cui non si può prescindere. Al proposito, suggerisco la guida per genitori su come parlare di Internet ai figli realizzata da Unicef Italia insieme a Unicef Malesia, Digi e Telenor Group. Una lettura semplice ma efficace che non solo aiuta a sensibilizzare su un problema ancora sottovalutato, ma spinge già verso la prevenzione.
IL TUO CERVELLO PRODUCE ABBASTANZA GABA?
BlogTi capita di sentirti triste, eccitato o irritato senza una ragione apparente e in modo ricorrente? Probabilmente è colpa del GABA, una fra le molecole naturali più importanti che ci abitano, conosciuta anche come il neurotrasmettitore della calma e del rilassamento, perché capace di rallentare l’attività cerebrale.
GABA è l’abbreviazione di una molecola: l’acido gamma amminobutirrico, un neurotrasmettitore (ossia una sostanza chimica che le cellule cerebrali usano per comunicare fra loro) che regola l’eccitabilità cerebrale mediante l’inibizione del rilascio di neuroni. Questo meccanismo genera una sensazione di calma e riduce stress, ansia e alcune malattie.
Il GABA è, di fatto, il neurotrasmettitore inibitore più usato. I neurotrasmettitori inibitori diminuiscono le probabilità che un impulso nervoso si presenti con troppa forza. È inoltre coinvolto in aspetti quali: vista, sonno, tono muscolare e controllo motorio e si trova oltre che nel cervello, nell’intestino, stomaco, vescica, polmoni, fegato, pelle, milza, muscoli, reni, pancreas e organi riproduttivi.
A COSA SERVONO I NEUROTRASMETTITORI
Per capire come funziona il GABA nel cervello, dobbiamo guardare il meccanismo di azione e gli effetti di un neurotrasmettitore. Per definizione è un messaggero tra i neuroni. Tuttavia, il tipo di messaggio trasmesso può variare da un neurotrasmettitore all’altro. Ne esistono di due tipi: neurotrasmettitori eccitanti e neurotrasmettitori inibitori. Il GABA appartiene a quest’ultima categoria. In altre parole, ha un potenziale inibitore. Lo fa legandosi a recettori specifici, detti recettori GABA o recettori GABAergici.
PENSIERI INDESIDERATI, ANSIA E STRESS
Il GABA è presente ad alte dosi all’interno dell’ippocampo – l’area del cervello che controlla la memoria – e permette di sopprimere i pensieri indesiderati. Difetti nella sintesi o nel rilascio di questo neurotrasmettitore, spiegano i pensieri intrusivi che caratterizzano il disturbo da stress post-traumatico, l’ansia, la depressione e la schizofrenia. Ecco perché è così importante per il nostro equilibrio mentale.
Il meccanismo sottostante all’incapacità di scacciare i pensieri intrusivi e sgraditi è stato individuato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, e i cui risultati sono illustrati in un articolo pubblicato su “Nature Communications”.
Studi precedenti avevano mostrato che la difficoltà ad arginare i pensieri indesiderati è connessa a una ridotta attività nella corteccia prefrontale, già nota per avere un ruolo primario nel controllo delle azioni: “Noi possiamo avere reazioni veloci, che sono spesso utili, ma a volte abbiamo bisogno di controllarle e impedire che si verifichino. Un meccanismo simile ci deve aiutare a evitare che si presentino pensieri indesiderati“, spiega Michael C. Anderson, coautore dello studio. Ma la corteccia prefrontale è solo un tassello del problema: in tutti i disturbi caratterizzati da pensieri intrusivi si osserva infatti anche un’iperattività dell’ippocampo, l’area cerebrale responsabile del controllo della memoria.
Nel recente studio Anderson ha sottoposto un gruppo di pazienti con pensieri intrusivi e un gruppo di controllo a un test che richiedeva di rifuggire da alcune idee per concentrarsi su altre, mentre i soggetti venivano sottoposti sia a risonanza magnetica funzionale (fMRI), sia a spettroscopia di risonanza magnetica (spettroscopia NMR). Mentre la fMRI permette di identificare i livelli di attività delle diverse aree cerebrali, la spettroscopia NMR permette di risalire al tipo di molecole coinvolte in questa attività.
Dal confronto dei dati raccolti è emerso che la capacità di inibire pensieri indesiderati si basa su un neurotrasmettitore – una sostanza chimica all’interno del cervello che permette la trasmissione di messaggi da un neurone all’altro – chiamato appunto GABA (acido gamma-amminobutirrico).
Il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio: il suo rilascio da parte di un neurone sopprime l’attività nelle altre cellule a cui è connesso. In particolare, è risultato che basse concentrazioni di GABA all’interno dell’ippocampo rendono difficile bloccare il recupero di ricordi e pensieri. In prospettiva, la scoperta potrebbe offrire un nuovo approccio per arginare i pensieri intrusivi in varie patologie, sviluppando farmaci in grado di migliorare selettivamente l’attività GABA all’interno dell’ippocampo.
SCARSI LIVELLI DI GABA
Nella maggior parte dei casi una disfunzione dei livelli di GABA può essere attribuita direttamente allo stile di vita, come sostiene il dottor Datis Kharrazian, ricercatore alla Harvard Medical School: “troppo stress, una cattiva alimentazione, la mancanza di sonno, troppa caffeina e l’intolleranza al glutine, sono cause di un’alterazione dei livelli di GABA”.
Anche i batteri intestinali producono questo neurotrasmettitore, motivo per cui la disbiosi, uno squilibrio fra i batteri intestinali buoni e cattivi, può provocare una produzione ridotta di GABA.
L’eccesso di acido glutammico poi, diventa GABA con l’aiuto della vitamina B6 e dell’enzima acido glutammico decarbossilasi. Ma una carenza di vitamina B6 o una reazione autoimmune possono interferire con la produzione del GABA. Sono molti i cambiamenti chimici che possono influire sull’equilibrio acido glutammico-GABA. Per quanto riguarda le sostanze di consumo: la caffeina inibisce l’attività del GABA, mentre l’alcol e i calmanti la aumentano.
COME AUMENTARE NATURALMENTE I LIVELLI DI GABA
Esistono degli integratori di GABA che contengono una versione sintetica di questo neurotrasmettitore. Tuttavia, vi sono delle controversie in merito alla loro efficacia.
Vi sono molti altri modi per mantenere sani livelli di GABA. Uno di questi è l’alimentazione. I ricercatori hanno analizzato i contenuti di GABA in un’ampia varietà di alimenti, come germe di riso integrale, germogli di riso integrale, germogli d’orzo, germogli di soia, fagiolini, mais, orzo, riso integrale, spinaci, patate, patate dolci, cavolo e castagne.
Una ricerca condotta dall’Istituto di Bioscienze dell’Università di Cork, in Irlanda, ha rivelato che gli alimenti probiotici aumentano l’acido γ-amminobutirrico. Alimenti come lo yogurt, il chefir, il kimchi e i crauti contengono i ceppi batterici produttori di GABA: Lactobacillus brevis e Bifidobacterium dentium.
Se sei preoccupano per i tuoi livelli di GABA, i medici consigliano di ridurre al minimo l’ingestione di caffeina, dato che inibisce la capacità di questo neurotrasmettitore di legarsi ai suoi recettori. Puoi bere del tè, che contiene meno caffeina, ma possiede l’amminoacido l-teanina, che aumenta questo neurotrasmettitore.
Un altro modo molto efficace per aumentare i livelli di GABA è fare attività fisica. Qualsiasi tipo di attività fisica aumenta i livelli di questo neurotrasmettitore, ma lo yoga è la più indicata. I livelli di GABA nel cervello possono aumentare fino a un 27% dopo una sola sessione di yoga. Inoltre il GABA può, in qualità di neurotrasmettitore inibitore, agire come miorilassante naturale. Ciò significa che può prendere parte al rilassamento muscolare, con un interesse non trascurabile per quanto riguarda la fase di recupero dopo l’attività.
Oltre ai benefici in caso di stress e ansia, il GABA è noto anche per gli effetti sulla salute cardiovascolare. Gli studi dimostrano che questo neurotrasmettitore inibitore può ridurre la pressione arteriosa inibendo il rilascio di alcuni neurotrasmettitori eccitanti. Può dunque risultare interessante nel contrastare alcuni disturbi cardiovascolari come la pressione alta, fattore di rischio importante per l’incidente vascolare cerebrale o ictus.
In secondo luogo gli studi hanno dimostrato che questo neurotrasmettitore svolge un ruolo importante nella regolazione dell’appetito. La sua azione influisce sull’assunzione del cibo e può contribuire a contrastare l’aumento di peso, in particolare nell’ambito di una dieta.
I BENEFICI DEL GABA
Le scoperte scientifiche riassumono così i benefici di un livello equilibrato del neurotrasmettitore:
A questo punto, sai cosa fare naturalmente se ti senti irritato, nervoso e particolarmente ansioso senza una vera ragione. Insomma, ora tocca a te!
PERCHE’ IL TEMPO SCORRE PER OGNUNO DI NOI A UNA VELOCITA’ DIVERSA?
BlogVuole la tradizione che sia di buon auspicio gettar via, l’ultimo dell’anno, qualcosa di vecchio per lasciar spazio al nuovo. Così come indossare biancheria intima rossa e baciarsi sotto il vischio… Delle tre, solitamente opto per la prima, salutando l’agenda dell’anno trascorso per sostituirla con quella dell’anno in arrivo. Inevitabilmente questo gesto mi porta a riflettere sul tempo, sui mesi che scorrono a una velocità che non ci è dato controllare e che sembra sempre diversa.
In vacanza o immersi nel flusso delle cose che ci piace fare, il tempo pare prendere il volo, ma poi quando ripercorriamo con la mente i ricordi di quei momenti, la durata di quelle giornate pare lunghissima, densa di emozioni. Gli scienziati hanno battezzato questo bizzarro fenomeno con il nome di “paradosso della vacanza”, per indicare la ragione per cui il tempo sembra molto più lungo quando è richiamato alla memoria, ma rapidissimo quando lo si vive.
Questa, ho scoperto non essere l’unica bizzarria legata alla percezione del tempo. L’età, il movimento e perfino la temperatura corporea possono influenzare la velocità con cui ci paiono scorrere minuti e ore. Inoltre, c’è un forte legame tra il nostro modo di misurare il tempo e quello di percepire lo spazio. La scienza, non a caso, è riuscita a dimostrare che l’esperienza del tempo è creata dalla mente. I fisici dicono che il tempo non trascorre, il tempo semplicemente è. Eppure, nessuno dubita che il tempo passi. Inevitabile che sia così, visto che il cervello misura il tempo. Ma, a volte, sbaglia.
IL CERVELLO MISURA IL TEMPO E A VOLTE SBAGLIA
A far sbagliare il nostro cervello sono in primis le emozioni. Quando sentiamo la nostra vita a rischio, se ci fate caso o se mai vi siete trovati in questa rovinosa situazione, il tempo pare rallentare e ogni secondo sembra durare un’eternità.
David Eagleman, neuroscienziato del Baylor college of medicine di Houston (Usa), ha dimostrato con uno spettacolare esperimento che quando si ha paura il cervello non pensa più velocemente. Eagleman ha chiesto a dei volontari di lasciarsi cadere da un traliccio alto 45 metri, avvolti da un’imbracatura che li avrebbe trattenuti prima di toccare terra. Il salto avveniva all’indietro in modo che il tuffo fosse più impressionante. Durante la caduta i volontari dovevano osservare un grosso cronometro che faceva scorrere i numeri in modo velocissimo. «I numeri si succedevano al ritmo di 20 volte al secondo, appena un po’ più rapidamente di ciò che l’uomo riesce a cogliere» ha spiegato Eagleman. «Ma nonostante le mie “vittime” dichiarassero tutte che la caduta era sembrata interminabile (quando fu loro chiesto di quantificarla la valutarono più lunga in media del 35%), nessuno riuscì a leggere le cifre sul display».
L’esperimento ha così dimostrato che la mente spaventata non lavora più in fretta dilatando il tempo: è solo il ricordo dell’evento ad apparirci più lungo.
A causare questa distorsione è la memoria. Se si mostra a dei volontari il video di 30 secondi di una rapina, a distanza di qualche giorno gli stessi volontari diranno che quel filmato è durato più di 2 minuti. Per dirla in modo semplice: un evento che ci colpisce genera più ricordi e per questo ripercorrendolo con la mente ci sembra più lungo.
TEMPO E PIACERE
Ma non finisce qui. Ad alterare la nostra percezione del tempo è anche la sensazione di non piacere agli altri, come dimostrato dalla psicologa statunitense Jean Twenge.
Twenge, che insegna all’Università di San Diego, ha chiamato alcuni volontari a svolgere un test per una ricerca. L’esperimento, efficace e sottilmente diabolico secondo me, richiedeva che una volta radunato un gruppetto di persone, venisse chiesto loro di fare conoscenza, raccontando episodi simpatici. Successivamente i volontari sono stati informati che, poiché il lavoro si sarebbe svolto a coppie, avrebbero dovuto segnare su un foglio i nomi di 2 persone con le quali sarebbe loro piaciuto lavorare.
I volontari sono stati poi chiamati uno a uno. A metà di loro è stato raccontato che erano stati scelti da tutti e che non si era riusciti a formare delle coppie; a metà degli altri è stato detto che nessuno li aveva scelti, che questo non era mai successo e quindi era meglio che lavorassero da soli. Poi a tutti è stato chiesto di compilare individualmente un questionario.
Il risultato: le persone a cui era stato riferito che piacevano a tutti quantificarono la durata del test in 42,5 secondi (in media); chi era stato rifiutato in 63,6 secondi, quasi un terzo del tempo in più.
Le emozioni hanno una grande influenza sulla percezione temporale. In un altro studio ad alcuni volontari sono state mostrate immagini di volti che esprimevano stati d’animo differenti ed è poi stato chiesto loro di stimare quanto tempo le immagini erano rimaste sullo schermo. Si è visto che rabbia e paura inducono a sovrastimare il tempo, mentre felicità e vergogna a sottostimarlo.
Leggendo qua e là, ho poi scoperto che anche la febbre può condizionare la percezione del tempo, riducendolo. Nel secolo scorso, lo psicologo Hudson Hoagland chiese alla moglie influenzata quando secondo lei fosse passato un minuto, e si accorse così che più si alzava la temperatura corporea, più la donna sottostimava il trascorrere del tempo (oltre i 39 °C, un minuto per lei durava appena 34 secondi).
GLI OROLOGI CHE ABBIAMO NELLA TESTA
«La stima del tempo dipende in gran parte dalle strutture sensoriali del cervello e perfino da quelle motorie» spiega Thierry Pozzo, neuroscienziato dell’Università di Digione. Del resto, tempo e spazio sono legati: se si benda una persona e le si chiede di rievocare una giornata di 4 anni fa il corpo si inclina leggermente indietro, se le si chiede di immaginare una giornata tra 4 anni il corpo si sposta leggermente in avanti.
Tempo e spazio sono così intimamente connessi che spesso il cervello li mescola. Esistono persone capaci di vedere il tempo dispiegarsi nello spazio. Lo vedono in forma tridimensionale: come una fascia che avvolge il corpo e poi si dipana. L’anno è di solito visualizzato come un anello che gira in senso antiorario. Le settimane hanno i modi di visualizzazione più vari: ferri di cavallo, semicerchi, curve, tessere del domino allineate.
Esiste una sola comunità umana, quella degli Amondawa dell’Amazzonia, che non conosce la parola tempo: nella loro cultura non esiste nulla di simile ai mesi o agli anni, non hanno né orologi né un calendario condiviso.
Il cervello, in realtà è in grado di stimare il tempo con una certa accuratezza. Ma finora non è stato trovato un vero “orologio” mentale; o meglio: forse ce n’è più di uno. È stato infatti scoperto che diverse aree cerebrali sono implicate nella percezione del tempo.
Fondamentale è il cervelletto, un’area che si trova nella zona della nuca e costituisce il 10% in volume del cervello ma ne contiene metà delle cellule. Serve per coordinare il movimento elaborando i dati provenienti dal resto del sistema nervoso. È il cervelletto che ci permette di non schiacciarci le dita nella portiere quando saliamo in macchina perché valuta quante frazioni di secondo lo sportello impiegherà a chiudersi.
Un’altra area che misura il tempo si trova nel lobo frontale destro, che ha anche un ruolo importante nella memoria a breve termine. In questa zona si valutano durate dell’ordine di secondi.
Ma quando bisogna andare oltre, su tempi di molti minuti, ore o giorni entra in gioco un’altra zona cerebrale, i gangli basali: 2 gruppi di neuroni che attraverso la dopamina controllano i muscoli, ma sono anche fondamentali nella valutazione della durata di un evento. Quindi, quando calcoliamo il tempo, usiamo una combinazione delle 3 zone cerebrali e del sistema dopaminico.
«Queste aree sono tutte implicate nella misurazione degli spazi temporali» dice Giacomo Koch, neurologo alla fondazione S. Lucia di Roma «ma sul modo in cui la nostra mente riesce a percepire il tempo ci sono diverse teorie: se sia implicata di più la memoria, l’attenzione, una serie di orologi cerebrali o se sia l’attività cerebrale quotidiana a darci la scansione del tempo è ancora oggetto di discussione».
A pensarla in modo differente è la neuroscienziata francese Virginie van Wassenhove. Secondo lei non esistono orologi mentali: ogni zona del cervello ha la capacità di calcolare il tempo. Ma lo fa solo quando glielo chiediamo. A darci l’idea che il tempo passi sarebbero le onde alfa le cui oscillazioni durano 30 millisecondi e che quindi riprodurrebbero nel nostro cervello una sorta di incessante tic tac.
Perso in tutte queste riflessioni e letture, intanto, non mi sono accorto che sono trascorse tre ore. Insomma, il tempo vola quando ti diverti… forse non è scientifico ma è pur sempre la mia percezione.
E SE L’AMORE FOSSE UNA QUESTIONE DI NEURONI? LA BIOLOGIA SVELA I SEGRETI DEL CUORE
BlogQuanti film e libri abbiamo guardato e letto, sperando di vivere anche noi l’amore perfetto. Fatto di passioni, pulsioni, desideri, follia e anche un po’ di dolore. Eppure l’innamoramento è ben diverso da come ce lo hanno sempre raccontato e come abbiamo sempre voluto che fosse. E’, più semplicemente, un mix di neuroni, ormoni e amore.
Forse è anche per questa ragione che la biologia non è così allettante: spoglia le storie dalle illusioni e cerca di spiegare con le metriche, anche ciò che vorremmo invece lasciare mistero. Eppure ci aiuta a portare consapevolezza su ciò che accade dentro di noi.
NEURONI, ORMONI E AMORE
Tre ingredienti, neuroni, ormoni e amore che vanno a braccetto. Non a caso l’amore nasce, cresce e muore nei neuroni, le cellule del cervello. E se gli ormoni rappresentano ciò che avviene a livello fisiologico, l’amore è ciò che accade nella mente. Processi entrambi che avvengono nel cervello.
L’amore e l’innamoramento sono due aspetti basilari della nostra esistenza, senza i quali non avremmo forse nemmeno la percezione di miglioramento, cambiamento personale e soprattutto di soddisfazione ed esaltazione che l’essere innamorati regala.
I MODI DELL’AMORE
Gli studi di neurofisiologia, che hanno indagato il processo dell’innamoramento e il suo passaggio all’amore, ci dimostrano però che possiamo essere innamorati in due modi: sottocorticale, di basso livello e istintualità, e corticale superiore, di alto livello.
Ognuno di noi ha sperimentato che nella fase iniziale dell’innamoramento la persona verso la quale nutriamo questo sentimento viene concepita come un possesso, qualcosa che ci appartiene personalmente, senza la quale ci sembra di non poter vivere. Questo tipo di innamoramento è quello istintuale, basato sull’idea di occupare lo spazio e il territorio del nostro partner per introdurlo all’interno della nostra gelosia.
Fortunatamente, però, è possibile passare all’amore, abbandonare questo innamoramento animale, instaurando un nuovo tipo di attaccamento. Un attaccamento che i neurofisiologi definiscono di tipo corticale superiore: in cui diventa preponderante l’azione della corteccia prefrontale in rapporto con il sistema limbico, che organizza le nostre emozioni. La corteccia prefrontale è quella parte del cervello connessa con tutte le altre parti della corteccia.
Uno dei ruoli fondamentali della corteccia prefrontale è stimolare la concentrazione su se stessi, favorendo così l’eliminazione di tutte quelle emozioni negative, come l’invidia, la gelosia, il possesso, l’aggressività.
Ormoni e amore si ricongiungono dando come risultato questa sensazione di non poter vivere senza l’altro, come quando si è più piccoli e non si può fare a meno dei genitori e degli adulti in generale. Gli ormoni coinvolti nell’attaccamento sono l’ossitocina e la vasopressina.
L’ossitocina viene secreta durante l’allattamento e l’orgasmo. La vasopressina dopo un rapporto sessuale, generando una sensazione di attaccamento all’altro. E’ per questo che si dice che quanto più sia sessualmente attiva una coppia, più forte sarà il vincolo. Ormoni e amore costituiscono le fondamenta di una relazione duratura.
BIOLOGIA E SCELTA DEL PARTNER
In questo ambito, la scienza si divide, non a caso i motivi che incidono sulla scelta sono controversi. Mentre alcune correnti sostengono che questa sia direttamente associata a fattori inconsapevoli; altri che è uno dei classici esempi della combinazione fra ormoni e amore.
Per chi ritiene che la scelta del partner sia determinata dalla combinazione fra ormoni e amore, l’elemento determinante in questa scelta sono i geni. Ognuno di noi sceglie colui o colei che ha il patrimonio genetico migliore. E’ una scelta istintiva, proprio perché non abbiamo a disposizione una mappa genetica quando decidiamo di stare insieme a una persona..
L’attrazione, o meno, viene percepita in un lasso di tempo che va dai 3 ai 4 minuti. Su questo non influisce né l’oratoria, né i vestiti di marca, né la macchina. I feromoni sono l’elemento determinante. Coscientemente sono impercettibili, eppure i nostri primordiali meccanismi di percezione ne sono sensibili. Ci parlano di sesso e fecondità, e incidono sull’attrazione e sull’innamoramento.
Le neuroscienze ci rivelano anche che durante la fase dell’innamoramento ormoni e amore subiscono uno stato di esaltazione molto elevato: vi è una maggiore produzione di monoammine nel cervello. In particolare di norepinefrina, dopamina e serotonina. Ciascuna di esse genera diverse reazioni e induce a determinati comportamenti.
NOREPINEFRINA
Fa sentire le farfalle nello stomaco. Si tratta di un’emozione forte, nella quale si mescolano gioia e nervosismo. Una sensazione simile a quando ci lanciamo con il paracadute.
DOPAMINA
Genera una sensazione di benessere e potere. È l’ormone responsabile dell’inizio dello sviluppo dell’attaccamento. E da esso dipende anche che l’amore sfoci in dipendenza.
SEROTONINA
Ci fa sentire entusiasti ed esultanti. Pazzi di gioia. Genera sensazioni molto piacevoli.
Ormoni e amore vanno sempre di pari passo. Questo non significa, però, che tutto possa essere spiegato in termini fisiologici.
PERCHE’ SOFFRIAMO PER AMORE?
Se l’innamoramento è una questione chimica, perché dunque soffriamo quando veniamo lasciati?
L’antropologa Helen Fisher ha studiato il cervello degli innamorati, utilizzando la risonanza magnetica funzionale. E ha scoperto che l’amore romantico è una dipendenza. Perfetta, meravigliosa, quando è reciproca. Quando va male, diciamo: ho preso una scottatura. Ed è realmente così. Nella mente si attiva la stessa area che reagisce a un dolore fisico, tipo una scottatura.
Quando invece qualcuno ci spezza il cuore, il cuore va incontro a spasmo acuto. Per lo psicologo Angelo Compare, il cuore infranto è una verità scientifica. I sintomi sono come quelli dell’infarto del miocardio. Il dolore al centro del petto è forte, dura a lungo, vengono anche sudori freddi, nausea e vomito.
Eppure innamorarsi rimane sempre una gran bella cosa. Chi non ha adorato quello
stato di alterazione della mente che corrisponde al far follie: non senti il dolore, accetti sfide impossibili, perdi lucidità. Dura al massimo da otto mesi a tre anni L’amore comincia con la sensazione di essere capiti e sostenuti. La persona che ami raggiunge le nostre parti più desolate. Troviamo divertenti le sue battute, odiamo le stesse persone, vogliamo dormire abbracciati, invecchiare insieme. E non è possibile. Nessuno capisce del tutto nessuno. Non a caso c’è chi sostiene che scegliere qualcuno da amare è solo una questione di decidere quale tipo di sofferenza siamo disposti a sopportare.
Le neuroscienze e la biologia ci aiutano a fare chiarezza ma è pur vero che possiamo conoscere tutti gli ingredienti di una torta alla crema, però mangiarla resta sempre un’esperienza meravigliosa.
VIAGGIO NEL CERVELLO FRA MITI, ILLUSIONI E IL DESIDERIO DI DIVENTARE IMMORTALI
BlogQualche notte fa, incapace di prendere sonno, facendo zapping da un canale all’altro, sono incappato in un film culto Frankenstein Junior di Mel Brooks, in cui il giovane medico Frederick Frankenstein scopre un fluido magnetico per mezzo del quale, innestando un nuovo cervello in un uomo morto, lo riporta in vita.
Dibattito infinito quello sul trapianto di cervello, oggi molto meno chimera grazie agli sviluppi e le scoperte in ambito medico, della genetica e delle neuroscienze, ma ancora di difficile realizzazione. Almeno su un paziente vivo.
Goloso di saperne di più, ho trascorso parte delle successive notti a cercare indizi per capire se il trapianto di testa, è una speculazione o il prossimo futuro. E ho scoperto che tenere in vita le cellule del cervello è tutt’altro che semplice.
In un articolo pubblicato sul sito di Medicina tedesco Ärzte Zeitung (poi rimosso, ma di cui rimane una copia cache), si legge che un team di ricercatori dell’Università di Yale diretto da Nenad Sestan sarebbe riuscito a ripristinare parzialmente le funzioni cerebrali di 32 cervelli di maiale, collegati al sistema BrainEx, in grado di fornire la giusta circolazione sanguigna e temperatura corporea agli organi.
«Dopo sei ore di perfusione, i ricercatori hanno osservato una riduzione delle cellule morte e hanno trovato evidenza di alcune funzioni cellulari, come l’attività della sinapsi. Tuttavia, non c’erano segni di funzioni cerebrali come la coscienza e la percezione».
Scopro altresì che quello di Sestan non è il primo studio sull’argomento e scartabellando qui e là, ho dovuto mettere molto impegno nel tenere a freno la fantasia e rimanere sul concreto.
Infatti pur sapendo che il lavoro di Sestan aveva risuscitato alcunchè e nemmeno ripristinato coscienza e percezione, mi piaceva credere di poter trovare di lì a poco, qualche altro studio che dicesse il contrario. Alla fine mi sono dovuto accontentare del fatto che questi esperimenti sono utili nel trattare danni cerebrali e capire qualcosa di più di un organo altamente complesso.
Niente, fra ciò che leggevo, dava risposta alla domanda più importante: è possibile ripristinare completamente la funzione cerebrale?
Ricerche del 2018 pubblicate sulla rivista del MIT, hanno dimostrato che il cervello potrebbe sopravvivere anche 36 ore dopo la separazione dal corpo. La ricerca riguardava anche allora dei cervelli di maiale sottoposti nuovamente a flusso sanguigno, i risultati vennero presentati al National Institutes of Health negli Stati Uniti nel marzo 2018.
Il neuroscienziato della Yale University ha rivelato che una squadra da lui guidata aveva sperimentato tra 100 e 200 cervelli di maiale ottenuti da un macello, ripristinando la circolazione usando un sistema di pompe, riscaldatori e sacchi di sangue artificiale riscaldati a temperatura corporea.
IL TRAPIANTO DI CERVELLO E’ TUTT’ALTRA COSA
Anche in quel caso non vi era alcuna evidenza di un ripristino di coscienza nei cervelli, mentre è stato riscontrato un prolungamento della vita di una parte delle cellule cerebrali. La tecnica ricorda quella utilizzata per conservare gli organi destinati al trapianto; a parte questo non può però essere riscontrata una tecnica in grado di riportare in vita le persone, magari dopo una decapitazione, tanto meno eseguire dei «trapianti di testa», possibili solo ed esclusivamente col decesso del paziente.
Il più recente articolo firmato da Sestan pubblicato su Current Opinion in Neurobiology «Shared and derived features of cellular diversity in the human cerebral cortex» , riguarda l’organizzazione dei neuroni nella corteccia cerebrale umana, quella dove è possibile trovare anche le funzioni che ci rendono coscienti.
Oltre Sestan un altro neuroscienziato ha portato l’attenzione su di sé, proclamando nel 2017, durante una conferenza stampa a Vienna, un’operazione che sarebbe stata effettuata in Cina su due cadaveri, dove la testa di uno e il corpo di un altro, sarebbero stati “assemblati” connettendo colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento lungo 18 ore.
A ben vedere un intervento su due cadaveri non è un trapianto. Almeno non dal punto di vista tecnico. E dunque non è corretto parlare di trapianto di testa.
Il neurochirurgo in questione è il torinese Sergio Canavero, della Harbin Medical University, in Cina.
UN TRAPIANTO SU UN MORTO CHE UTILITA’ HA?
Così mi sono chiesto: se i pazienti arrivano sul tavolo operatorio già morti, che senso ha un trapianto?
A fornirmi la risposta è Dean Burnett, neuroscienziato e giornalista, sul Guardian, «forse la procedura adottata è stata una buona dimostrazione di come “attaccare” nervi e vasi sanguigni su larga scala, ma con ciò? È solo l’inizio di ciò che serve perché un corpo funzioni. Puoi assemblare due metà di auto diverse e definirlo un successo, se vuoi, ma nel momento in cui giri la chiave e il tutto esplode, la maggior parte delle persone avrebbe qualche difficoltà a sostenere che è stata una brillante idea».
PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE TRAPIANTARE UNA TESTA?
Dal punto di vista medico, il trapianto totale di corpo presenta almeno tre grandi, invalicabili criticità: le migliaia di nervi contenuti nei due monconi del midollo spinale, la temperatura del cervello e il problema del rigetto.
Se alcuni organi, come il cuore, sono relativamente facili da trapiantare (perché basta connettere un numero limitato di vasi), altri sono praticamente impossibili da trasferire da un corpo a un altro. Uno di questi è il midollo spinale: perché possa tornare funzionante ci sono milioni di connessioni neurali che andrebbero ripristinate, e finora non è mai stato possibile un trapianto simile.
Sarebbe un’impresa monumentale: nel 2017 è stata trapiantata con estrema pazienza e difficoltà, una mano. Altri successi in fatto di trapianti, come quello di volto, di pene, di utero, hanno richiesto decenni di tentativi e sono già considerati rivoluzionari.
Canavero dice di aver già eseguito con successo un trapianto di testa su ratti e scimmie, ma anche queste affermazioni sono discutibili: il primate non si è mai risvegliato dall’operazione, ed è stato lasciato attaccato alle macchine che lo tenevano in vita per 20 ore “per ragioni etiche“.
Un altro non trascurabile dettaglio che rende difficile trapiantare una testa, riguarda il fatto che il cervello inizia a degradarsi e morire dopo pochissimi minuti senza ossigenazione, riportando danni permanenti. Anche raffreddandolo il più possibile, lo si potrebbe tenere in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricucire con pazienza le milioni di connessioni neurali? Probabilmente no, e ogni danno cerebrale annullerebbe l’utilità di un trapianto totale di corpo (almeno prima il cervello funzionava).
Infine, quale sarebbe l’impatto psicologico sul paziente? A differenza dei trapianti di organi interni, quelli di parti visibili come il volto, le mani o il pene presentano altissime probabilità di rifiuto psicologico da parte del paziente, che pure ne sentiva la necessità.
Il successo del primo trapianto di pene è stato in parte offuscato dalle richieste del paziente di rimuovere i nuovi genitali, che sentiva di non riconoscere. Avviene spesso anche con le mani – con i pazienti che si trovano a preferire protesi visibilmente finte ad appendici appartenute a qualcun altro. La sensazione di avere addosso un intero corpo (morto) di uno sconosciuto potrebbe avere effetti devastanti sulla psiche. Che dire poi dei farmaci antirigetto presi per evitare che un corpo appena arrivato rigetti il “vecchio” cervello? Chi sarebbe a quel punto il legittimo proprietario?
Domande legittime che mi riportano a un altro film di qualche anno fa, non meno ricco di irrisolti, da lasciarmi anche allora insonne.
BOGOWIE: L’OPERAZIONE E’ RIUSCITA
Bogowie narra di Religa: il primo medico a effettuare un trapianto di cuore in Polonia nel 1985. Un’operazione, avvenuta diciotto anni dopo quella del pioniere sudafricano Christian Barnaard ma che resta rivoluzionaria visto il luogo, il contesto storico e le precarie condizioni in cui venne effettuata.
Erano in molti, colleghi compresi, a osteggiare il cardiochirurgo, accusato di mettere a repentaglio la vita dei propri pazienti per mettersi in mostra. Dall’altro, milioni di polacchi erano diffidenti nei confronti di un trapianto cardiaco per motivi morali e religiosi visto l’altissimo valore simbolico del cuore visto come sede di anima e sentimenti per molti fedeli cattolici. ‘Mentre invece sappiamo benissimo che si tratta di un muscolo‘ ribadisce Zbigniew Religa.
Bogowie, non a caso, significa ‘Dei’ ed è proprio di questo che Religa e i suoi colleghi chirurghi della clinica di Zabrze, in Slesia, sono stati accusati. Medici che, lungi dall’arrogarsi il diritto di sostituirsi a Dio, ritengono invece di avere il dovere morale e professionale di tentare di salvare uomini e donne.
Pazienti spesso ritenuti casi disperati e, come tali, a loro volta consapevoli di giocarsi il tutto per tutto pronti percio’ ad affidarsi alle mani e ai ferri dei giovani e coraggiosi chirurghi polacchi.
Al pari delle persone che decidono di sottoporsi a trapianto cardiaco nella sua clinica, Religa ha molto da perdere in caso di insuccesso: la vita privata ma anche i preziosi finanziamenti che gli consentono di tenere aperta la clinica, oltre al prestigio professionale. Ma soprattutto Religa rischia di compromettere irrimediabilmente la fiducia in se stesso e nella propria capacità di salvare il prossimo. Non a caso ogni operazione fallita, ogni crisi di rigetto post-operatorio, ogni paziente scomparso lo portano a scivolare nell’alcool e nell’isolamento.
Chissà – rifletto mentre le ultime scene del film sfumano -, forse qualcuno vuole davvero sostituirsi a Dio, ma credo che i più vogliano solo salvare uomini e donne malati. Difficile stimare i confini fra dove finisce l’etica e dove inizia la brama personale. Un tempo era il cuore, oggi è il cervello.
Buona riflessione a tutti.
FOREVER YOUNG? LA SINDROME DI DORIAN GRAY
BlogE’ storia recente, ma l’unico proiettile d’argento «contro il logorio della vita moderna», lo ha sempre e solo decantato il Cynar, l’amaro a base di carciofo tanto caro all’attore di teatro Ernesto Calindri. Troppo recente anche per Dorian Gray, il protagonista del romanzo di Oscar Wilde, che per mantenere eterna la giovinezza, per scacciare le rughe dello spirito e della pelle, è stato costretto a vendere l’anima al diavolo.
La necessità di opporre strenua resistenza all’invecchiamento e al terrore che il corpo si pieghi al passare degli anni, è nota, non a caso, come sindrome di Dorian Gray. Sintomi tipici dei tempi ultra moderni.
OSCAR WILDE
Dorian Gray per scongiurare gli effetti del tempo, fece un patto: lo specchio gli rimandava quello che era stato; il quadro, quello che stava diventando.
Giovane dalla straordinaria presenza e dai modi aristocratici, affascina il pittore Basil Hallward. L’infatuazione è tale che Hallward decide di immortalarne la bellezza in un ritratto dalla perfetta somiglianza. Dorian vedendo la sua immagine così perfetta, ne resta turbato e formula l’augurio che la vita non lasci mai alcuna impronta sul suo volto ma che, al contrario, vada a segnare quello del ritratto. Ed è ciò che succede: Dorian si dà a una vita di piaceri senza scrupoli, cominciando a disfarsi di tutti coloro che ritiene inopportuni, dalla giovane innamorata Sybil che abbandona e che per il dolore muore suicida, fino all’amico pittore che uccide di sua mano per il disappunto di sentirsi rimproverato. Ciò nonostante il suo volto continua a restare quello di un bellissimo adolescente incontaminato. Ma, di tanto in tanto, andando a sbirciare il ritratto Dorian ne scorge le terribili mutazioni e un giorno, non sopportandone più la vista, si avventa sulla propria immagine…
SINDROME & SINTOMI
La sindrome di Dorian Gray viene descritta per la prima volta dallo psichiatra Brosig, nel 2000, in un testo intitolato con questo nome, per dare risalto al gran numero di pazienti che lo contattano per la paura di invecchiare (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11471770). La nota più grave di questa sindrome è che chi è ne affetto arriva, talvolta, a compiere pericolose pratiche allo scopo di rimanere giovane: chirurgia estetica senza ritegno, eccesso di botox, e via dicendo. Il loro desiderio non è solo rimanere giovani esteticamente: vogliono continuare a vivere la vita come se avessero 18 anni e come tali continuano a comportarsi.
Brosig ha individuato alcuni tratti rappresentativi del disturbo:
– preoccupazione per l’aspetto esteriore;
– dismorfofobia, ovvero l’ossessione per un’imperfezione fisica percepita e spesso non reale (sentirsi sempre troppo grassi, per esempio, o credere di avere un naso anormale);
– eccessivo ricorso ad integratori, cosmetici, farmaci e rimedi medici o chirurgici per perfezionare il proprio aspetto o combattere l’invecchiamento;
– ricorso immotivato a stimolanti sessuali e/o droghe per contrastare la preoccupazione sulla libido e/o l’efficienza erettile;
– interesse smodato per il sesso, con promiscuità sessuale e tendenza a ricercare pratiche sempre nuove e/o estreme.
Di fatto queste persone vivono fra l’illusione e la frustrazione: fantasticano su un nuovo trattamento che restituirà loro la giovinezza ma quando si rendono conto che nulla può trasformare quella fantasia in realtà, si sentono frustrate ma lo considerano come un errore di procedimento e non della loro percezione.
TEMPI MODERNI
Questo disturbo è il frutto della necessità dei bisogni moderni: esaltare la bellezza fisica, cura maniacale dell’apparenza e sessualità come panacea universale della felicità. Ostentazione che oggi è possibile grazie ai social network, i selfie, e la presenza di alcuni programmi televisivi che inneggiano al narcisismo spietato (Uomini e donne, L’isola dei famosi, con presentazione di personaggi femminili e maschili proposti come modelli standard di bellezza).
In questo contesto nascono, a testimoniare la plasmabilità della mente e dell’apparato psichico, nuove patologie di derivazione narcisistica, quali ad esempio l’ortoressia (ossessione per il mangiar “sano”) e la vigoressia (ossessione per il fisico perfetto), che si sommano agli aspetti disfunzionali classici quali disturbi dell’autostima e dell’affettività e senso di depressione legata al senso di inadeguatezza o estraneità psicosociale, che colpisce soprattutto i soggetti meno predisposti a adeguarsi ai valori dominanti.
La sindrome di Dorian Gray – che rappresenta la evoluzione negativa di un fenomeno sociale e culturale che va distinto dal disturbo narcisistico vero e proprio – presenta aspetti molto presenti nella vita sociale oggi, che diventano per chi ne soffre, motivo di disagio sociale ed individuale a volte grave.
SUPERFICIALITA’ EMOTIVA
La sindrome di Dorian Gray si evidenzia in corrispondenza dei cambiamenti legati alla maturazione corporea. Eventi come la perdita dei capelli, della tonicità della muscolatura e dei tessuti, l’aumento di peso o la riduzione della prestanza fisica possono scatenare intense crisi. Questa sindrome evidenzia gli aspetti evidenti della superficialità emotiva che oggi domina e impera sui rapporti sociali e di coppia. Piacere e piacersi per quello che si è, deve essere un coacervo inserito profondamente nelle nostre strutture emotive e poco importa se si interagisce socialmente con persone che la pensano diversamente, con persone che non sanno guardare oltre il sottile strato della pelle per cogliere l’altro nella sua completezza e veridicità. Si tratta, quindi, di una situazione complessa che ha bisogno di un intervento psicoterapeutico per essere superata.