LA SINDROME DI STOCCOLMA: quando gli ostaggi solidarizzano con i rapitori e le vittime difendono i carnefici

Patricia Campbell, nel 1974, a 19 anni, fu rapita dallo SLA (esercito di liberazione simbionese), famigerato gruppo di estrema sinistra responsabile di molti crimini nell’America degli anni ’70. Dopo due mesi di reclusione Patty si unì attivamente al gruppo partecipando a diverse rapine in banca.

Gianni Ferrara, venne rapito all’età di 8 anni, mentre si trovava con la famiglia ai Caraibi e portato in Venezuela da 5 agenti di polizia dello Stato di Zulia che chiesero un riscatto di 650 milioni di lire. Gianni negli oltre 2 mesi di sequestro si affezionò a tal punto ai rapitori che quando questi vennero arrestati inveì contro la polizia.

Clara Rojas, politica colombiana, rapita nel 2002 dalle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), si innamorò di uno dei suoi rapitori dalla cui relazione nacque un bambino.

Shawn Hornbeck, 11 anni, rapito nel 2002 e ritrovato per puro caso nel 2007 mentre le autorità cercavano un altro bambino rapito dallo stesso sequestratore, Michael Devlin. Inizialmente Michael avrebbe voluto uccidere Shawn per eliminare il testimone di quella che fu una violenza carnale su minore, ma Shawn gli avrebbe proposto di divenire il suo schiavo personale in cambio della vita. Tre anni dopo il suo rapimento, Shawn mandò dal proprio cellulare dei messaggi ambigui ai genitori:  in uno chiedeva per quanto ancora avessero intenzione di cercare loro figlio, in un altro (scritto 57 minuti dopo), si scusava e chiedeva se avrebbe potuto scrivere una poesia per loro. Questi messaggi erano firmati Shawn Devlin.

C’è una cosa che accomuna tutte queste persone: il rapporto indissolubile, quasi perverso che sconfina nell’amore fra vittima e carnefice. E dal nome singolare: Sindrome di Stoccolma

COSA E’ LA SINDROME DI STOCCOLMA

E’ un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta quando chi è vittima di un particolare tipo di violenza fisica e/o psicologica, sviluppa un sentimento positivo nei confronti del suo aguzzino, del suo carnefice, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.

LA STORIA

Il nome origina da un caso di sequestro di persone avvenuto il 23 agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson, evaso dal carcere di Stoccolma dove era detenuto per furto, tentò una rapina alla Sveriges Kredit Bank e prese in ostaggio tre donne e un uomo.

La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore in spazi angusti durò sei giorni.  Il rapporto che sviluppò fu tale che quando Olsson disse alla polizia che avrebbe sparato alla gamba dell’uomo in ostaggio, questi pensò che il suo carceriere fosse stato gentile a voler sparare solo alla gamba e non a lui. Quando poi gli ostaggi vennero liberati quest’ultimi si preoccuparono dell’incolumità dei propri carcerieri e dopo essere usciti dall’edificio, si abbracciarono reciprocamente. Successivamente le vittime continuarono a provare sentimenti contrastanti e apparentemente irrazionali nei confronti dei rapitori. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori ai loro rapitori, e non alla polizia, perché non li avevano uccisi.

Nel corso delle sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che “avevano ridato loro la vita” e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

COSA ACCADE NELLA MENTE DELLE VITTIME

Benché a livello cosciente si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia “farsi amico” il sequestratore, in realtà la Sindrome di Stoccolma non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La sindrome, comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo “legame positivo”, tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l’ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un “NOI qui dentro” contro un “LORO che stanno fuori”.

L’ostaggio reagisce come può all’estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la negazione. Per sopravvivere la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo.

Solo dopo qualche tempo l’ostaggio comincia a rendersi conto, ad accettare e a temere la propria situazione, ma trova un’altra valvola di sicurezza nel pensare che non tutto è perduto poiché presto interverrà la polizia per salvarlo. La certezza di una salvezza “garantita” dall’Autorità, aiuta l’ostaggio nella propria difesa mentale, ma più passa il tempo senza che accada nulla -e in casi simili è facile perdere la cognizione del trascorrere dei minuti e delle ore-, più l’ostaggio tende inconsciamente a rinnegare l’autorità costituita che è diventata per lui, di fatto, una incognita. Logica conseguenza è l’inizio del processo di immedesimazione, o di “identificazione”, con il carceriere.

Nel contempo aumenta sempre più il timore di una conclusione tragica e tutti gli ostaggi intervistati hanno dichiarato di aver approfittato dell’occasione per fare un resoconto della propria vita; tutti hanno giurato a se stessi di cambiarla in meglio una volta terminata la brutta avventura, quasi che quest’ultima costituisse lo spartiacque tra la “vecchia” vita e una “rinascita”, completamente avulsa e indipendentemente dalla precedente.

Quando ostaggio e rapitore si trovano all’interno di uno stesso locale, magari angusto, sia esso il caveau di una banca, o la fusoliera di un aereo, una casa, una grotta, un treno, o altro ancora, si sviluppa un rapporto di “convivenza” che favorisce, e accelera, il reciproco processo di “umanizzazione”. In tal senso, quanto più il carceriere riesce a compenetrarsi nei problemi dell’ostaggio, o viceversa, tanto più aumenteranno le possibilità di sopravvivenza.

Alcune vittime di sequestri, che provarono la sindrome, a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, e una di esse ha sposato Olofsson. Altre vittime hanno cominciato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all’arresto.

GLI STATI EMOTIVI VISSUTI DALLA VITTIMA

Tentando una schematizzazione su quanto finora detto, potremmo individuare la sequenza degli stati emotivi che vive un ostaggio anche per prevenirli o almeno per meglio comprenderli:

  1. Incredulità
  2. Illusione di ottenere presto la liberazione
  3. Delusione per la mancata, immediata, liberazione da parte dell’autorità
  4. Impegno in lavoro fisico o mentale
  5. Rassegna del proprio passato

Nella stragrande maggioranza, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l’effetto della sindrome, è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale del carceriere, bensì da ciò che questi potrebbe fare e NON fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere, ecc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di sindrome poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sottocontrollola situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza.

Un’altra esperienza che accomuna gli ostaggi è l’immedesimazione nelle qualità umane dimostrate dal carceriere, anche quando queste siano state di breve durata.

Nei casi di rapina con ostaggi, se è vero che il rapinatore armato si trova “in trappola” e si ritiene “vittima” della polizia, è altrettanto vero che anche l’ostaggio tende a condividere tale atteggiamento. Quando il rapinatore viene sorpreso dalla polizia ed è “costretto” a prendere ostaggi, il suo problema è chiaro: fuggire vivo e, possibilmente, con i soldi. L’ostaggio si trova nella stessa identica posizione: vuole uscire vivo; il suo carceriere certo glielo consentirebbe, ma è la polizia a impedirlo. Il rapinatore si “umanizza”, perciò, agli occhi dell’ostaggio, è diventato “persona”, con problemi identici ai propri. L’insistenza della polizia nel richiedere al bandito di arrendersi, non fa altro che prolungare la prigionia e allontana la speranza di riguadagnare la libertà senza danni fisici.

Matura così, nella mente dell’ostaggio, il convincimento che: “se la polizia va via, anch’io me ne vado; se la polizia lascia andare il bandito, anch’io sarò libero!”. Comincia così la Sindrome di Stoccolma e, d’altro canto, il legame positivo, l’“umanizzazione” e il “rendersi persona”, che è alla base della sindrome, si può manifestare non solo nell’ostaggio, ma anche nel carceriere.

Dalla banca dati dell’FBI statunitense risulta che circa l’8% degli ostaggi ha manifestato sintomi della sindrome di Stoccolma.

LA SINDROME AL CINEMA

Se la tematica vi ha incuriosito, non potete perdervi alcune pellicole che sapranno ancor più di questo post, portarvi a vivere (in totale sicurezza) la sindrome di Stoccolma

  • Rapina a Stoccolma (2018): il film basato sulla rapina alla Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e da cui prende il nome la Sindrome
  • Un mondo perfetto: l’evaso rapisce un bambino e fugge attraverso il Texas. Durante il viaggio il bimbo sviluppa un legame tipico della sindrome di Stoccolma.
  • Il portiere di notte: la protagonista instaura un rapporto ossessivo e indissolubile con l’uomo che la teneva prigioniera nel campo di concentramento durante la II guerra mondiale
  • John Q: le persone sequestrate da un padre che non può far trapiantare il cuore del figlio si schierano dalla parte del loro sequestratore.
  • Quel pomeriggio di un giorno da cani

QUANDO LA PAURA CI PARALIZZA: L’EFFETTO FREEZING

Quando gli animali si sentono minacciati da un pericolo, possono reagire in tre diversi modi: lo affrontano combattendo, fuggono il più velocemente possibile – queste due cose insieme vengono chiamate reazione “combatti o fuggi” – oppure si paralizzano. Può sembrare controintuitivo, ma in alcuni casi la paralisi può essere la scelta migliore e in molti altri casi è l’unica possibile.

Questa terza opzione prende il nome di freezing e si manifesta con bradicardia (abbassamento del battito cardiaco) e immobilizzazione e può durare da pochi secondi a 30 minuti.

Anche gli esseri umani possono avere questi tre tipi di reazioni e molto spesso in situazioni di emergenza imprevista si bloccano, anche quando non è una buona idea.

John Leach, psicologo dell’Università di Portsmouth che studia il comportamento nei casi di emergenza e tiene corsi ai militari su come sopravvivere in queste situazioni, ha stimato che in condizioni rischiose per la vita, il 75 per cento delle persone è così sconvolto da essere incapace di pensare razionalmente, così che invece di progettare un piano di fuga si blocca. Solo il 15 per cento resta calmo e razionale a sufficienza per prendere decisioni che gli salveranno la vita, mentre il restante 10 per cento provoca danni a sé e agli altri agitandosi in modo eccessivo e poco costruttivo.

SOSTANZE CHIMICHE E CERVELLO

Ci sono delle ragioni evolutive per cui gli animali, esseri umani compresi, si comportano in un modo o nell’altro, a cui corrispondono delle precise reazioni fisiche che coinvolgono il rilascio di alcune sostanze da parte del cervello.

In generale, si attacca quando si pensa di essere in grado di sconfiggere il pericolo che si fronteggia: in questo caso il sistema nervoso simpatico rilascia alcuni ormoni, in particolare l’adrenalina, che aiutano ad affrontare la situazione con tutta la forza possibile, aumentando il ritmo del battito cardiaco e facendo arrivare più sangue ai muscoli.

La stessa cosa succede quando si fugge: in questo caso perché il pericolo sembra insormontabile e al tempo stesso sembra esserci una via di fuga.

La terza opzione, quella del freezing, più mentale che fisica, sembra essere l’unica possibile nei casi in cui non c’è speranza di vincere in uno scontro fisico e pare che manchino le vie di fuga. Capita a molte persone che restano bloccate su una spiaggia a osservare l’avvicinarsi di uno tsunami e ad alcune vittime di aggressioni sessuali.

Il responsabile del freezing è la sostanza grigia periacqueduttale, all’interno del mesencefalo, una delle aree più “primitive” del cervello.

Nel 2013 alcuni neuroscienziati dell’Università di Bristol hanno scoperto che questa sostanza grigia, una volta percepito il pericolo, attiva la piramide, una parte del cervelletto, che blocca il corpo.

I vantaggi del freezing sono più di uno. Il primo è che essere bloccati mentalmente e a livello emotivo aiuta a non rendersi conto di ciò che sta succedendo: alcune sostanze (come le endorfine, comunemente associate a sensazioni di piacere ed euforia) che vengono rilasciate nel corpo funzionano come un analgesico e per questa ragione i traumi fisici e psicologici vengono percepiti con intensità minore. Questo comportamento, come si può ben immaginare nel caso delle aggressioni sessuali, è una specie di strategia inconscia di riduzione del danno. Nel caso di un’aggressione – che l’aggressore sia un animale o una persona violenta – non reagire può, in alcuni casi, scoraggiare chi sta attaccando dal continuare.

NEL MONDO ANIMALE

Gli opossum sono famosi per fingersi morti quando si sentono minacciati e non lo fanno semplicemente restando immobili: in modo del tutto involontario cadono su un lato con la bocca aperta e gli occhi spalancati ed emettono una sostanza maleodorante dall’ano, cosa che porta i predatori a pensare che siano morti da tempo e quindi cattivi da mangiare.

Una cosa molto simile la fanno anche i serpenti del genere Heterodon, in Nord America. Alcune rane brasiliane (le Ischnocnema aff. henselii) invece si girano a pancia in su, con gli occhi chiusi e le zampe divaricate e stanno ferme per alcuni minuti; specie di rospi fanno cose simili perché hanno la pelle dell’addome o delle zampe di colori accesi, che suggeriscono la presenza di un veleno ai predatori.

COME IL FREEZING CONDIZIONA I COMPORTAMENTI IN EMERGENZA

Il problema con la reazione di paralisi di fronte ai pericoli è che in molti casi risulta controproducente, almeno nell’esperienza umana. A causa di questa reazione, a volte solo temporanea, molte persone aspettano troppo tempo prima di correre a mettersi in salvo e per questa ragione muoiono.

Durante l’attentato di Londra nel giugno 2017, un poliziotto fuori servizio che ha affrontato gli attentatori ha raccontato di aver visto persone reagire al pericolo stando ferme “come cervi di fronte ai fanali di un’auto“. Un altro esempio è quello delle persone che si trovavano agli ultimi piani del World Trade Center l’11 settembre 2001: in media le 15 mila persone presenti nel WTC aspettarono sei minuti prima di iniziare l’evacuazione, impiegando in media circa un minuto per ogni piano, il doppio di quanto previsto dagli standard di sicurezza.

Nel rapporto riguardante l’incidente aereo di Manchester del 1985 in cui persero la vita 55 persone, si afferma che “le persone hanno rallentato e ritardato l’evacuazione”. Nella documentazione ufficiale relativa al disastro della piattaforma petrolifera Piper Alpha del 1988 si dichiara che “un numero consistente di persone non ha tentato di lasciare i propri posti”. Un superstite dell’incidente navale della nave Estonia, avvenuto nel 1994, ha dichiarato che molte persone erano rimaste immobili in stato di shock: “Non capivo perché non facessero niente per salvarsi, erano sedute inermi e sono state sommerse dall’acqua”. Ed ancora, in un incidente aereo a Tenerife una sopravvissuta ha testimoniato che dopo l’impatto la sua mente era diventata appannata e che si era salvata solo perché il marito l’aveva presa per mano, costringendola a seguirlo. Prima di abbandonare l’aereo aveva guardato indietro verso una sua amica, che era rimasta sul suo sedile ad urlare, congelata dalla paura.

Negli esseri umani questo comportamento non è dovuto a un semplice blocco dei muscoli, come negli altri animali, almeno non sempre, ma a una più profonda stasi del cervello che impedisce alle persone di pensare razionalmente e quindi prendere iniziative che potrebbero salvare loro la vita.

Invece di fare un piano si comportano come se nulla fosse; nel caso dell’11 settembre, uno studio ha stimato che metà dei sopravvissuti si mise in salvo dopo aver fatto cose come telefonare, mettere in ordine i propri cassetti, chiudere il proprio ufficio, andare in bagno, mandare delle email o cambiarsi le scarpe.

In questi casi la paralisi mentale non è tanto dovuta al fatto che non ci sia una scelta chiara tra “attacco” e “fuga”, ma al fatto che ci si trova in una situazione imprevista e nuova, oltre che stressante, in cui non si sa bene come reagire. Gli eventi si susseguono in modo troppo veloce perché la risposta delle persone si adegui. Per questo molti muoiono nei naufragi o negli incendi. Si pensa anche che in alcuni casi le persone reagiscano bloccandosi per un meccanismo di negazione che, come le endorfine, rende meno doloroso il trovarsi di fronte a un pericolo.

COME RIDURRE LE REAZIONI DI FREEZING IN SITUAZIONI DI EMERGENZA 

Per limitare l’effetto dei pericoli imprevisti, gli esperti di sicurezza nelle situazioni di emergenza come John Leach consigliano di pensare in anticipo a cosa fare in caso di emergenza. È il senso delle raccomandazioni che vengono fatte ai passeggeri degli aerei prima del decollo (prestare attenzione ogni volta ha senso) o nei corsi di sicurezza sul lavoro.

Il cervello è strutturato in modo che i tempi di risposta possano essere migliorati attraverso la pratica e l’esperienza. Ciò è possibile trasformando operazioni cognitive complesse (che impiegano 8-10 secondi) in operazioni cognitive semplici (che impiegano 1-2 secondi). Se la risposta da adottare è già stata appresa, il cervello non dovrà compiere operazioni cognitive complesse per adottare un comportamento ottimale, ma dovrà solo selezionare tra un set di risposte apprese precedentemente, così facendo il tempo di risposta si ridurrà a 1-2 secondi.

Le implicazioni funzionali per coloro che si trovano in situazioni di pericolo sono le seguenti:

  • Se una risposta appropriata all’evento è già stata preparata ed immagazzinata nel cervello, la velocità di attuazione di una risposta pertinente è di 100 millisecondi, ossia immediata.
  • Se sono disponibili più risposte attuabili, allora scegliere la corretta sequenza comportamentale richiede un semplice processo di decision making, che impiega 1-2 secondi.
  • Se non esiste una risposta appropriata, allora dovrà essere creato uno schema comportamentale temporaneo. Questo processo impiegherà almeno 8-10 secondi in circostanze ottimali e in condizioni di pericolo anche di più. Poiché spesso il tempo non è sufficiente, si produrrà il freezing.

Dunque, considerando le limitazioni della memoria di lavoro, è possibile ridurre la reazione di freezing nelle situazioni d’emergenza mediante training che permettano di creare degli schemi comportamentali attuabili, evitando così di trovarsi nella situazione di doverli creare sul momento. Ecco perché è importante agire d’anticipo e pensare, laddove possibile, quali opzioni sono più utili per togliersi dai guai.

Un’altra cosa da ricordare è lasciar perdere i propri oggetti personali, se si trovano in un aereo o in una casa in fiamme.

Infine, un buon consiglio è fare dei respiri profondi quando ci si rende conto di essere in pericolo: in questo modo ci si rilassa e si stimolano parti del cervello che controbilanciano l’effetto della sostanza grigia periacqueduttale.

Se il tema vi ha appassionato, per saperne di più vi consiglio il mio libro: “Difendere a prescindere”, edito da Paesi Edizioni. Qui il link: https://paesiedizioni.it/collane/difendere-a-prescindere-diego-coco-libro/

C’ERA TANTA GENTE, NON POTEVA ACCADERMI NULLA. INVECE SONO MORTO! Le strategie da mettere in atto in caso di emergenza e pericolo

New York. Un caso di omicidio come tanti: una giovane donna viene aggredita e uccisa nella strada di casa mentre è di ritorno, a tarda notte, dal lavoro.

La storia sarebbe finita lì se non fosse che il delitto non è stato nè silenzioso nè rapido, bensì tormentato, rumoroso e soprattutto pubblico. L’aggressore ha assalito e colpito la donna 3 volte in mezz’ora, prima di ridurla al silenzio e 38 vicini di casa hanno assistito alla scena dalle finestre delle proprie abitazioni senza far nulla, tanto meno chiamare la polizia.

OMERTA’, PAURA O INDIFFERENZA?

Perché nessuno dei trentotto spettatori si è preoccupato di intervenire per aiutare la ragazza?

Diverse sono state le ipotesi formulate, ma nessuna è sembrata coerente con la situazione. Fino a che due psicologi sociali Latané e Darley hanno trovato la soluzione: “nessuno era intervenuto non, come era stato detto, benchè ci fossero 38 testimoni oculari, ma proprio per questa ragione, perchè c’era tanta gente a guardare”.

Bizzarra conclusione? Non direi proprio…

Due sono le ragioni per cui chi assiste a casi di emergenza difficilmente interviene se ci sono altre persone. La prima è facilmente deducibile: la responsabilità personale di ciascuno si diluisce e mentre ognuno pensa che sia già intervenuto o stia per intervenire qualcun altro, non fa nulla. La seconda è psicologicamente più complessa e fondata sul principio di riprova sociale: l’emergenza spesso non è così evidente, la persona sdraiata a terra ha avuto un malore o è un ubriaco che dorme? I colpi che si sentono sono spari reali o tubi di scappamento? Le urla che arrivano dalla casa accanto sono conseguenti a una aggressione o a un litigio fra coniugi? Cosa sta succedendo?

“In momenti di incertezza la tendenza naturale è guardarsi intorno per capire come si comportano gli altri e dagli altri capire se è un’emergenza o no – spiega lo psicologo Robert Cialdini -. Quello che però si dimentica è che anche tutti gli altri che osservano l’evento sono in cerca della stessa riprova sociale. E siccome in pubblico a tutti piace apparire tranquilli ci limiteremo a brevi occhiate con la conseguenza che ognuno vedrà che nessuno degli altri si scompone e non interpreterà l’episodio come un caso di emergenza”.

L’idea quindi di essere al sicuro nella folla è del tutto errata: la probabilità di ricevere un soccorso tempestivo è migliore quando è presente un unico spettatore. Ma…

PERCHE’ E’ IMPORTANTE AVERE PAURA?

Prima di proseguire oltre e capire quali comportamenti è meglio adottare per mettersi al sicuro in situazioni come questa, non possiamo non soffermarci su un’emozione tanto antipatica quanto necessaria: la paura.

Quella che si manifesta in situazioni di emergenza e di incertezza.

Quella che ha provato la povera vittima e quella che hanno rifiutato di provare i 38 spettatori, preferendo credere che fosse tutt’altro che un atto di violenza quello che si stava consumando nel giardino di casa, dove tutti i giorni i loro figli, famigliari e amici passano per andare a scuola, al lavoro o anche solo per portare a spasso il cane.

Alle origini, il ruolo della paura era più importante di quanto lo è oggi: stretti nelle grotte, nel buio della notte e con il lieve lucore del fuoco, il pericolo era in agguato in ogni angolo e in caso di bisogno il corpo del primitivo doveva reagire prima della sua mente. Era questione di vita o di morte, di essere azzannati da un predatore sbucato dal nulla o di sfuggirgli, oppure anche semplicemente capire se il tuono di un temporale non portava niente di buono e fosse quindi meglio mettersi al riparo o meno.

Però per conoscere meglio il ruolo che ha questa emozione così poco addomesticabile, dobbiamo considerarla dalla prospettiva contraria: cosa accadrebbe se non avessimo paura.

NON AVERE PAURA, MI RENDE PIU’ FORTE?

Aveva 10 anni, Mary, quando si ammalò: alcune parti del suo corpo, compresa l’amigdala, si calcificarono prima di distruggersi. Il suo comportamento cambiò drasticamente, come quella sera che si ritrovò a camminare in una strada deserta che costeggiava un parco immerso nel buio.

All’improvviso l’attenzione della bambina venne attirata da un uomo, seduto su una panchina, con addosso abiti sporchi e atteggiamenti poco rassicuranti. Mary gli si avvicinò e in un attimo si ritrovò con un coltello puntato alla gola e la minaccia di venir ammazzata. Non mostrò timore, anzi rispose all’aggressore: “Sappi che se stai per uccidermi, dovrai vedertela prima con gli angeli del Signore”. La reazione fu così sconcertante che l’uomo lasciò andare la bambina.

A questo punto l’equipe del neuropsicologo Feinstein, da cui la bambina era in cura, decise di approfittare di Halloween, per portare Mary al Waverly Hills Santorium, nel Kentucky, un vecchio ospedale abbandonato. La struttura si trasforma ogni anno in una casa del terrore progettata con uno spaventoso realismo, e con una cura dei dettagli senza paragoni. Mentre il gruppo di scienziati arrancava nel panico, Mary si lanciava nei corridoi bui del sanatorio, incurante di ragni, serpenti e di tutte quelle cose che ai bimbi procurano incubi e terrore.

La malattia genetica di cui è affetta Mary la priva della capacità di avere paura. Eppure provare paura è vitale. Non provassimo quella fastidiosa e talvolta terrorizzante sensazione, non saremmo sopravvissuti nel corso dell’evoluzione. La paura è la reazione emotiva che si prova davanti a un pericolo, un attacco o una minaccia. Responsabile delle reazioni legate alla paura, alla gestione della rabbia e al riconoscimento dei pericoli è l’amigdala, una piccola parte del cervello a forma di mandorla (a cui deve il nome), situata sotto la corteccia del lobo temporale.

La paura è una emozione e come ogni emozione ha la funzione di valutare costantemente quello che ci accade intorno, permettendoci di reagire nel modo più opportuno; in qualunque situazione di confronto, il sistema emotivo calibra il nostro atteggiamento in rapporto al flusso di dati in arrivo e insieme regola il corpo preparandoci all’azione.

LA CONVINZIONE ERRATA DI ESSERE AL SICURO NELLA FOLLA

Ora che sappiamo che la paura può davvero salvarci la vita, riguardiamo il tragico fatto di cronaca avvenuto a New York, questa volta dalla parte dello spettatore.

L’assunto a cui sono arrivati i ricercatori è che l’idea di essere al sicuro nella folla è del tutto errata: la probabilità di ricevere un soccorso tempestivo sono migliori quando è presente un unico spettatore.

Per giungere a questa conclusione Darley e Latané hanno inscenato casi di emergenza sotto gli occhi, ignari, di spettatori isolati o in gruppo. In un caso uno studente fingeva una crisi epilettica: dei passanti isolati, l’85% interveniva a dargli soccorso, contro il 31 per cento se erano presenti cinque persone.

Come scritto in apertura, è difficile attribuire all’apatia o all’indifferenza quel comportamento: la spiegazione va cercata altrove.

In un altro esperimento veniva fatto filtrare del fumo da sotto una porta: dei passanti isolati, il 75% dava l’allarme, contro il 38% se i testimoni erano tre, il 10% se nel gruppo di tre c’erano due complici del ricercatore che passavano facendo finta di niente.

La situazione cambia quando invece i presenti non sanno con certezza cosa stia succedendo. In questo caso la vittima ha più probabilità di ricevere aiuti e soccorsi anche da un gruppo.

COME AGIRE IN CASO DI NECESSITA’

Conoscere come reagisce un gruppo di persone, può salvarci la vita. Se la giovane vittima di New York avesse saputo che i coinquilini non sarebbero intervenuti non per crudeltà, ma per incertezza (non sapendo se fosse davvero il caso di intervenire e a chi toccasse), le avrebbe permesso di mettere in atto azioni ben diverse.

Immagina di essere andato a fare una corsetta a sera tarda, per approfittare del fresco, ad un tratto senti un dolore che si irradia al braccio sinistro e al petto. Ti siedi su una panchina per darti il tempo di riprendere fiato, mentre gruppetti di persone ti passano davanti senza vederti. Senti che qualcosa non va, pensi a un infarto o a qualche disturbo poco simpatico. Le persone continuano a passeggiare incuranti e i pochi che possono aver notato qualcosa di strano in te, osservano gli altri in cerca di una riprova sociale, ma vedendo che nessuno fa nulla, proseguono nella loro passeggiata certi che tutto vada bene.

Cosa è utile fare per attirare l’attenzione dei passanti e ricevere soccorso?

  1. Non perdere tempo. Se il problema di salute è grave, non si può correre il rischio di perdere conoscenza prima di chiedere aiuto.
  2. Non urlare o gridare. Possono, questi atti, richiamare l’attenzione ma non sono sufficienti a far capire agli astanti che si tratti di una vera emergenza. Potrebbe essere il gesto di un uomo sudato e un po’ folle in cerca di attenzione…
  3. Dì con chiarezza “aiuto” e il tipo di bisogno di aiuto di cui hai bisogno. “Aiuto, ho bisogno di un medico”. La parola “aiuto” da sola, non basta. Occorre specificare il tipo di aiuto di cui si necessita o non verrà preso in considerazione se gli avventori sono intenti a fare altro o se avessero paura.
  4. Individua una persona fra la folla e dagli un ordine: “Lei, signore, con la giacca rossa, chiami un’ambulanza”. In questo modo, metterai quella persona nel ruolo di “soccorritore”, e lui saprà che c’è una emergenza e che tocca a lui fare qualcosa. Non ad altri, proprio a lui. Tutti gli esperimenti condotti indicano che il risultato di una richiesta formulata in questo modo attiverà un’assistenza efficace.

La strategia migliore è quella di ridurre le incertezze degli spettatori, formulando una richiesta precisa, rivolta a una singola persona individuata nel gruppo. Insomma, occorre assegnare il compito di attivare i soccorsi a una persona specifica, altrimenti il pensiero di gruppo sarà quello di credere che altri debbano mettersi in moto, o stiano per farlo o lo abbiano già fatto. Mentre tu agonizzante, potresti perdere minuti preziosi.

Agire in questo modo, fa sì che l’aiuto si faccia contagioso. Vedendo che una persona si attiva per chiamare l’ambulanza, tutte le altre si fermeranno per dare il loro aiuto. Così facendo non solo avrete risolto una situazione che si poteva fare pericolosa, ma avrete fatto in modo di far lavorare a vostro vantaggio il principio della riprova sociale.

FRAGILI E AGGRESSIVI. ECCO CHI SONO GLI ADOLESCENTI IN BRANCO. Come riconoscerli per difenderci e aiutarli

“Doveva essere una serata normale, poi i ragazzi hanno iniziato a bere alcolici e fumare marijuana, quando abbiamo rifiutato di fare altrettanto, ci hanno picchiato”.

“Quel clochard lo abbiamo colpito, per noia e per gioco, con spranghe e martelli. E poi siamo andati via”.

“C’è chi dice siano sei, chi dieci. Sono ferocissimi. Tra loro anche alcune ragazze. Compiono furti, dettano legge, e aggrediscono chiunque trovino sulla loro strada. Senza motivo hanno massacrato di botte un ventenne mentre camminava in centro per i fatti suoi”.

Ordinari episodi di violenza collettiva: il volto spaventoso e folle del branco. Un intreccio di persone, per lo più adolescenti fra i 7 e i 14 anni, che hanno forte lo scopo di sentirsi onnipotenti, cancellare la debolezza individuale, la confusione del futuro e l’angoscia di sentirsi nullità.

Il branco è proprio questo, un agglomerato di energia e forza incontrollabile che devasta e sfida senza un minimo di paura. E in cui è forte il bisogno di emulare ciò che fanno gli altri e dove la responsabilità delle azioni brutali si diluisce fra i membri portandoli ad autogiustificarsi.

IL CONTESTO

È piuttosto facile pensare che la microcriminalità trovi terreno fertile nei contesti degradati, in cui sussistono condizioni critiche a livello economico e familiare. In realtà una percentuale piuttosto alta di fenomeni di criminalità minorile afferisce a contesti in cui l’estrazione sociale è medio-alta. Si tratta spesso di adolescenti incensurati, con alle spalle famiglie benestanti, che vivono annoiati nel benessere e che scelgono il gruppo per innalzare ulteriormente il proprio status.

COME CAMBIA IL COMPORTAMENTO NEL BRANCO

Quando gli individui si muovono in gruppo l’intelligenza media è pari a quella del meno intelligente, non a caso reagiscono e agiscono principalmente basandosi sulla forza fisica e non sull’abilità intellettiva.

Molte sono le ricerche fatte allo scopo di analizzare la psicologia del branco, fra questi l’esperimento carcerario condotto da Philip Zimbardo, che ha preso alcuni volontari e li ha trasformati in guardie o carcerati, giungendo a spingere i primi a sottoporre a torture i secondi alla luce della loro immedesimazione nei ruoli loro assegnati; i primi sono diventati violenti ed aggressivi, i secondi remissivi e impotenti.

I partecipanti erano stati selezionati perché ritenuti equilibrati, maturi e privi di un passato criminale. Nonostante questa selezione accurata, Zimbardo fu costretto a interrompere l’esperimento dopo solo sei giorni perché le guardie erano diventate violente, sadiche e vessatorie nei confronti dei prigionieri. Questi, umiliati, dimostrarono sintomi di apatia e disgregazione individuale e collettiva.

Il risultato dell’esperimento fu definito “effetto Lucifero” perché ha dimostrato come persone essenzialmente buone, possano trasformarsi in mostri capaci di atti disumani. Questo suggerisce che la malvagità non deriva solo da chi siamo, ma viene anche determinata dalla situazione specifica in cui ci troviamo.

Una delle condizioni che si verifica è la perdita dell’identità individuale a vantaggio di quella di gruppo: ogni volta che nella mente di una persona l’appartenenza a un branco è predominante, non agisce più come singolo con una propria consapevolezza e diventa incapace di riflettere sulle proprie azioni. Il gruppo dà la sensazione di anonimato e riduce il senso di responsabilità.

IL BRANCO HA BISOGNO DI UN CAPO

L’impatto che il ruolo di direttore del carcere ricoperto dallo stesso Zimbardo, ha avuto sull’esperimento, non è affatto trascurabile. La sua autorità ha aiutato a legittimare il comportamento vessatorio delle guardie. L’autorità, se visto come fattore legittimante, può far emergere il lato peggiore nelle persone come dimostrò il professore di Yale e Harvard Stanley Milgram, nei suoi esperimenti sull’obbedienza, nel quale un’autorità, nel caso specifico uno scienziato, ordinava di dare delle scosse elettriche a un’altra persona fino a un voltaggio potenzialmente letale. Più del 60% dei partecipanti, anche se dimostrarono sintomi di tensione e protestarono verbalmente, diedero la scossa più forte.

La caratteristica fondamentale del branco è la necessità di avere un capo. Il branco “è’ un gregge che non può fare a meno di un padrone – sosteneva l’antropologo Gustave Le Bon -. Rari però sono i capi dotati di forti convinzioni, la maggior parte mira all’interesse personale e cerca il consenso lusingando i bassi istinti”. Dal canto loro, ogni componente del branco cerca di venir legittimato per sentirsi parte di qualcosa di più grande, un’identità che da solo non sa riconoscersi o che non gli viene riconosciuta dall’esterno.

LE RESPONSABILITA’ DEL BRANCO

Fino a qualche anno fa, grazie agli studi di Milgram e Zimbardo, si pensava che una volta inserito in un ruolo, in una determinata situazione, in un dato gruppo di appartenenza, un individuo tendesse a seguire passivamente gli ordini impartiti o le regole del gruppo, perdendo ogni consapevolezza di sé.

Più recentemente lo stesso esperimento carcerario, è stato riproposto e questa volta i ricercatori sono arrivati alla conclusione che chi ubbidisce a un ordine odioso non è una marionetta inconsapevole, bensì un esecutore attivo e partecipe di un gesto che, in quel momento, considera perfettamente appropriato. “Le brave persone che prendono parte a azioni orribili – spiega Alex Haslam, autore dello studio – non lo fanno perché sono diventate d’un tratto passive e prive di raziocinio, ma perché sono giunte a credere, solitamente influenzate in questo da chi detiene il potere, che quell’atto è giusto”.

Esiste insomma un fattore “entusiasmo” di cui Milgram e Zimbardo non sembravano tenere conto. “La tirannia non si fonda sull’ignoranza e sulla debolezza dei suoi sostenitori, ma sulla loro convinzione di agire per una grande causa”.

TEORIE E MOTIVAZIONI

Esistono varie teorie che tentano di identificare le cause dello sviluppo del fenomeno. C’è chi sostiene che parte della colpa sia imputabile alle serie tv incentrate su spaccati di vita disagiati, disastrati e degradati. In alcuni casi la tendenza ad adottare condotte anti-sociali è associata alla psiche dei soggetti, in frustrazioni non controllate che portano a scaricare l’aggressività su persone più deboli. E chi ritiene che la responsabilità sia da ricercare in contesti familiari problematici, nell’ambito dei quali sussistono divorzi, separazioni difficili e talvolta anche perdite.
Al contrario anche una famiglia troppo protettiva e accondiscendente può far nascere nel ragazzo il forte desiderio di ribellarsi. Insomma non esiste un’unica motivazione e ogni singola teoria può risultare più o meno accreditata a seconda dei contesti e delle situazioni.

TRE RAGIONI CHE SPINGONO UN ADOLESCENTE A FAR PARTE DI UN BRANCO

I ragazzi sono spinti in gruppo da un forte desiderio di anticonformismo, sulla base del quale tendono ad andare contro tutto ciò che impone delle regole da seguire. L’opposto di ciò che hanno il coraggio di fare individualmente. La criticità è spesso insita in un’educazione carente, povera di regole da rispettare, o addirittura in una totale assenza di orientamento socio-educativo da parte dei genitori.

Nello specifico nel gruppo gli adolescenti cercano:

  • acquisire un’identità: in questa fase il ragazzo inizia a sviluppare la personalità, se non ha esempi o guide credibili, decide di seguire il capo branco, che è visto dal gruppo dei pari come uno che è “rispettato”
  • appartenere ad un gruppo che spaventa e che “conta”: incutere timore significa essere rispettati, sono le leggi della strada; non avendo ancora acquisito quella sicurezza interiore che permette di sviluppare la fiducia in se stessi, questi giovani si sentono protetti dal branco
  • avere potere: esercitare una sorta di dominio nel gruppo dei pari, dà loro una sorta di onnipotenza e invincibilità fittizia, che nell’immediato però, li fa sentire appagati

COSA POSSIAMO FARE NOI ADULTI?

Più di quanto crediamo:

A) EDUCARE AL SENSO DI RESPONSABILITA’

Analfabeti emotivi, trovano in azioni scellerate adrenalina pura e non essendo stati educati al senso di responsabilità, al rispetto per gli altri e per le autorità, diventano delle schegge impazzite.

Noi adulti abbiamo il dovere di dare l’esempio e dimostrare loro che non è solo importante diventare ricchi, potenti e famosi. Importante è appassionarsi a qualche cosa (sport, musica, arte, studio) e impegnarsi al massimo. Non bisogna intraprendere un’attività solamente perché può portare denaro, potere e fama; il piacere va trovato nella pratica stessa.

Dobbiamo trasmettere loro che non si è più furbi se si ottengono risultati imbrogliando o prevaricando. I risultati devono essere raggiunti attraverso la passione, l’impegno, la determinazione e la competenza.

L’individualismo patologico e la competizione sfrenata, dove vale tutto basta vincere a qualsiasi prezzo, non vanno d’accordo con la collaborazione. Se la nostra specie è sopravvissuta fino ad oggi, non è dovuto al fatto che l’essere umano fosse più forte degli altri animali, ma perché ha reso forte il gruppo.

 B) PROMUOVERE LA PRATICA DI SPORT DI GRUPPO

Gli sport di lotta, fra cui anche il rugby, soprattutto in età pre-adolescenziale dovrebbero essere discipline praticate obbligatoriamente nelle scuole primarie, soprattutto per i valori che trasmettono. Disciplina, rispetto per l’avversario, spirito di squadra, cooperazione, collaborazione, faticare e sudare per un obiettivo, resistere alle cadute e alle sconfitte, imparare a gestire la paura utilizzandola come una risorsa, controllare la rabbia, assumersi la piena responsabilità delle azioni e dei comportamenti “dentro e fuori” dalla palestra.

Ma soprattutto, questi sport insegnano che la fatica fatta in allenamento, non è finalizzata all’acquisizione di denaro né alla popolarità, ma alla pura soddisfazione personale, impagabile e fondamentale per aumentare l’autostima nei ragazzi e la fiducia nei compagni di squadra.

 C) DARE IL BUON ESEMPIO

Sì alla potenza, no alla prepotenza. Un antidoto alla violenza è l’esempio dei genitori: noi adulti dobbiamo testimoniare nella vita di tutti i giorni come si reagisce e come si comunica in modo potente, efficace, ma non prepotente. Occorre insegnare ai ragazzi che gli abusi quotidiani possono essere gestiti in modo maturo: può capitare in macchina, con un parcheggio soffiato all’ultimo, un sorpasso azzardato… Sappiamo noi per primi reagire in modo misurato?