C’è chi afferma che si tratta di un falso problema e che mai il mondo è stato luogo più sicuro; chi invece va alla continua ricerca di dati che testimoniano il contrario, ossia che furti, rapine, borseggi, estorsioni e sequestri siano in continuo aumento. Da qualsiasi parte ci si schieri, una cosa è certa: la sicurezza personale è una delle preoccupazioni più diffuse e su cui tutti si sentono in dovere di dire la loro.

Ma chi, fra le due fazioni, ha ragione?

Dai numeri delle Forze dell’ordine analizzati da Info Data, relativi al luglio-agosto 2017, è emerso che omicidi, furti e rapine si sono ridotti, rispetto gli stessi mesi del 2012, del 42,5 per cento. Le rapine invece sono scese del 35,8 per cento. Eppure nonostante i numeri evidenzino una contrazione, i reati continuano a spaventarci.

LA SICUREZZA OGGETTIVA NON ESISTE

Per comprendere il perché i dati pur essendo incoraggianti, hanno poca presa sulla nostra sensazione di sentirci al sicuro, occorre fare una differenziazione fra sicurezza oggettiva e soggettiva.

Non esiste la sicurezza oggettiva, ma ne esiste una reale ed una percepita; e non necessariamente le due coincidono”, detto in altre parole “la sicurezza di un uomo non dipende da fattori necessariamente reali e un soggetto potrebbe sentirsi in pericolo anche dove non lo sia concretamente e reagire quindi ad un’inesistente minaccia come altrettanto potrebbe percepire di essere al sicuro dove invece una minaccia esiste ed agire in modo sconsiderato ed imprudente”. Si legge nel libro Difendere a Prescindere, edito da Paesi Edizioni.

Insomma pur avendo meno pericoli reali che minacciano la nostra sopravvivenza e quella della nostra specie, oggi rispetto i nostri antenati tendiamo a considerare minacciose anche quelle situazioni che tali non sono. Fino a qui non sarebbe un gran male, ma la cose si complicano quando mettiamo in atto azioni in base a quanto (erroneamente) percepito. E capite bene che se una situazione non a rischio viene percepita come pericolosa, i comportamenti che metteremo in atto sono ben diversi da quelli che attueremmo se invece ci sentissimo al sicuro.

SEI PROPENSO O AVVERSO AL RISCHIO?

Il pericolo da come viene percepito attiva sostanzialmente due tipi di comportamenti: lo si cerca o lo si rifugge, ossia si è propensi o avversi. Chi ha propensione al rischio ha una soglia di attivazione diversa rispetto gli stimoli e tende a cercare emozioni e rischi maggiori o ad essere meno sensibile alle punizioni. Questa propensione a cercare stimoli nuovi spesso annebbia la valutazione dei rischi.

Tomasz Zaleskiewicz, nel 2001, ha proposto una distinzione in ulteriori due sottotipi di propensione del rischio: non strumentale e associato a stimolazione. L’assunzione del rischio è una tendenza specifica del campo economico e ci aiuta a comprendere i diversi modi in cui la percezione del rischio può operare rispetto alla nostra vita. Il tipo non strumentale è associato al campo degli investimenti economici e a caratteristiche di personalità quali un orientamento al futuro, pensiero razionale, impulsività e propensione a rischiare. L’assunzione del rischio associata a stimolazione, sembra essere associata a una preferenza per il prendere rischi in ambiti dello svago, rispetto all’etica e alla salute e del gioco d’azzardo. Inoltre, è associata a caratteristiche di personalità quali l’orientamento al momento, la ricerca di attivazione, l’impulsività e una forte ricerca di sensazioni stimolanti.

L’avversione al rischio è invece un tratto di personalità che può comprensibilmente risuonare come maggiormente conforme a una vita funzionale. Si tratta della preferenza per un’opzione certa (anche se di meno valore) rispetto a una variabile, a qualcosa di incerto. Tuttavia, tali situazioni sono molto rare nella quotidianità. L’Anas nel 2004 ha pubblicato un’interessante ricerca sulle diverse tipologie di guidatori. Questa, ha dimostrato come l’impatto di stress e stanchezza possano influenzare lo stile di guida e la probabilità di incidenti.

I COMPORTAMENTI ALLA GUIDA

Il campione della ricerca era composto da 60 persone coinvolte in un incidente, con necessità di cure ospedaliere superiore alle 24h. Il campione era formato da residenti a Roma, Milano, Padova e Napoli. I risultati hanno delineato 4 stili di guida degli italiani:

  1. Travellers. Coloro abituati a lunghi spostamenti in auto da soli o in compagnia. La ricerca definisce la guida di tale categoria “rilassata e diligente”.
  2. Heavy Users. Si tratta di persone che sono costrette a passare la maggior parte della loro vita in macchina, spesso per motivi lavorativi. La loro guida viene descritta come “incline a violare i limiti di velocità e all’irrequietezza alla guida”.
  3. Frequent Movers. Sono le persone abituate a usare diverse tipologie di mezzi di trasporto privati (es., macchina, scooter, etc.) per spostamenti all’interno della città. Tendono a mostrare un tipo di guida “poco attenta e intollerante al traffico”.
  4. Road Runners. Tale categoria è composta da guidatori di mezzi privati ad alta velocità che ostentano una guida aggressiva, spesso “arrogante”.

Questo tipo di ricerca evidenzia una correlazione tra le tipologie di guida, il diverso vissuto, le abitudini quotidiane e il tipo di uso del mezzo privato. In parte, evidenzia anche come, caso dei travellers escluso, il rischio venga sottovalutato, se non ignorato, a fronte delle esigenze ed abitudini personali.

E’ TUTTA COLPA DELLE TRAPPOLE MENTALI

A spiegare in modo scientifico il perché tendiamo a prendere decisioni più o meno rischiose sono stati il premio Nobel Daniel Kahneman e il collega scomparso prematuramente Amos Tversky, nella loro  teoria del prospetto.

L’evoluzione ci ha portato a ragionare per euristiche, una sorta di “scorciatoie di pensiero”: pattern di pensiero che si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione per rispondere alla necessità di trovare dei metodi veloci di risposta alla maggior parte dei problemi quotidiani. Le euristiche non sono negative. L’errore è la non consapevolezza di quanto queste possano essere automatiche. Tale inconsapevolezza porta all’incapacità di riconoscerle e di valutarne un uso adeguato.

Bias ed euristiche possono quindi indurci in errore e farsi percepire il rischio e la pericolosità di una situazione in modo differente rispetto alla realtà di quella situazione.

  • Il bias dell’ancoraggio: decidere assumendo come punto di confronto un valore delineato in modo arbitrario, con nessuna rilevanza oggettiva per la decisione;
  • La fallacia del gambler: sovrastimare la salienza di un evento, positivo, passato e assumere che questo si ripeta nel tempo;
  • Il bias del presente o hyperbolic discounting: assumere che delle ricompense immediate siano di maggior valore rispetto a ricompense differite nel tempo, ignorando il valore assoluto di queste;
  • Il bias dell’ottimismo: ignorare o sottostimare la possibilità che degli eventi negativi possano riguardarci in prima persona. Tendiamo a non pensare che eventi come il divorzio, la perdita del lavoro, un incidente stradale possano capitare proprio a noi.

Questi tipi di bias cognitivi e una sovrastima delle proprie capacità si frappongono spesso rispetto a una minimizzazione dei rischi, nella vita di tutti i giorni. Ritorniamo in auto e traduciamo i bias in esempi pratici:

“La lunghezza del percorso potrebbe essere assunto come una variabile fondamentale per la valutazione del rischio di incidente, ecco quindi la tendenza a non mettere la cintura per percorsi brevi.”

“Da giocatori, potremmo assumere che il fatto di aver sorpassato spesso in passato nella corsia di emergenza senza incorrere in sanzioni o pericoli sia ormai trasformabile in un vero e proprio pattern.”

“Uscire il prima possibile dal traffico può essere percepito come più allettante rispetto a una guida sicura e nel rispetto degli altri, un tipo di comportamento che ci darebbe delle ricompense oggettive e reali sul lungo termine oltre che aumentare il livello di sicurezza personale e degli altri.”

“Sentirci particolarmente capaci perché capita che nel sorpassare altre macchine, pur non mettendo la freccia, riusciamo nel nostro intento senza creare scompenso è un elemento sufficiente per sentirci invincibili?”

Si tratta di pensieri comuni che attraversano la mente della maggior parte delle persone, in modo più o meno conscio.

Una volta constatato che a fronte di un rischio oggettivo la valutazione e la rappresentazione di esso può essere soggettiva e compreso come le persone possano avere attitudini differenti, è bene cogliere ciò che viene dopo. Siamo esseri fallaci e fallibili, tuttavia stiamo sviluppando da secoli una conoscenza di noi stessi e della realtà che ci circonda. In gran parte tale conoscenza ci può portare ad avere una maggiore padronanza dell’ambiente che ci circonda. Assunta tale consapevolezza, quindi, è bene affrontare le sfide quotidiane sfruttando al meglio le nostre capacità e le nostre conoscenze.

Senza dimenticare che il rischio percepito non necessariamente corrisponde alla realtà oggettiva. Quindi se il pericolo non è imminente, vale la pena esaminare i vari elementi che portano a considerare pericoloso un ambiente  o una situazione che si sono dimostrate invece sicure, così che la prossima volte incappando in un contesto similare non ci si farà più travolgere dall’ansia ingiustificata, dalla frenesia o si sarà più bravi a mitigare i danni di eventuali accadimenti negativi.

Per secoli, i filosofi hanno tentato di interpretare la natura della mente, poi sono arrivate le neuroscienze che, occupandosi di cervello, hanno accumulato una grande quantità di conoscenze empiriche, svelando meccanismi sconosciuti che ci stanno aiutando a spiegare il comportamento umano e a migliorare la nostra vita.

Abbiamo così avuto modo di renderci conto di quanto il cervello sia un organo spettacolare che agisce in base a schemi complessi e che “predilige una condizione di equilibrio stabile e di coerenza. Il comportamento umano è imprevedibile e fatto di mille sfumature”, per usare le parole del divulgatore scientifico David Di Salvo.

IL CENTRO DELLA RICOMPENSA

Molecola di Dopamina

E ha necessità di emozioni positive così come di quelle negative. Negli articoli precedenti abbiamo affrontato il tema della paura, della rabbia, del conflitto, ma non dobbiamo dimenticare che nel cervello c’è anche il centro della ricompensa, che ha la funzione di rinforzare i comportamenti più vantaggiosi per l’individuo. Il neurotrasmettitore della ricompensa è la dopamina, una sostanza importante, ma anche un potente nemico di gratificazioni inappropriate, che danno luogo a comportamenti compulsivi e a forme di dipendenza patologica, come avviene nel caso di droghe, sesso, rete o gioco d’azzardo.

Il cervello acquisisce una condizione di felicità se riesce a vivere in uno stato di certezza e di stabilità emotiva. Ciò fa emergere la sua tendenza a cercare prove che confermino le proprie idee e a ignorare quelle che le contraddicano. E’ una disposizione battezzata dai neuroscienziati bias di conferma. Cercare prove o giustificazioni nel convalidare la nostra posizione e contrastare quelle che la confutano è un meccanismo cerebrale che avviene e attuiamo inconsapevolmente di continuo.

Ma perché impegnarsi tanto per dimostrare l’ autenticità di una cosa che invece si è dimostrata essere falsa? Cercare di aver ragione pur di fronte ad evidenti falsità è una condizione emotiva che produce nel cervello una scarica neurochimica di gratificazione. Avere l’ ultima parola anche in questioni banali è una cosa che al nostro cervello piace all’inverosimile. Perché ogni comportamento di “chiusura”, di “resistenza mentale” rappresenta una “ricompensa” una soddisfazione, un premio psicologico. Una scossa di certezza: “contrasto, nego, rifiuto: dunque sono, esisto”.

Il ruolo della dopamina è ancora più interessante di così.

DOPAMINA, CORTISOLO E SEROTONINA

Molecola di Serotonina

Robert Lustig è un endocrinologo americano, professore all’Università della California a San Francisco. Ha scritto un libro: The Hacking of the American Mind dove spiega le basi biochimiche dei comportamenti: cosa succede nel cervello quando, ad esempio, ci si trova a Parigi in agosto, in casa si soffoca di caldo, sarebbe meglio bere acqua, invece si scende in strada per comprare un gelato alla nocciola e nostra moglie o nostro marito ci ricorda gli etti, se non i chili in più che già abbiamo in dotazione e non siamo riusciti a smaltire per la fatidica prova costume. Funziona così: la dopamina spinge alla ricerca del sollievo e di un piacere immediato, il gelato. Alla prima leccata, la beta-endorfina fornisce una sorta di orgasmo alimentare, ma il commento coniugale scatena il cortisolo e lo stress: a quel punto niente può impedire di buttarsi anche su un croissant al cioccolato.

È un libro uscito un paio di anni fa negli Stati Uniti che contrappone il piacere immediato – fornito da droghe, zucchero, alcol, tabacco, like e retweet sui social – alla felicità. Indulgere nella nevrosi della micro-ricompensa può generare dipendenza e depressione perché ci si assuefà in fretta, le dosi non sono mai abbastanza e si cade quindi in depressione. Soprattutto, la ricerca del piacere allontana la felicità intesa come appagamento.

E poi c’è la serotonina che è determinante durante l’innamoramento. Piacere e felicità sono due passioni positive, i moventi della vita, solo che dovrebbero stare in equilibrio e collaborare. Il piacere è il dominio della dopamina, la felicità è il regno della serotonina. Ma secondo Lustig l’America e l’Occidente, complice la tecnologia, sono sempre più schiavi della prima.

La dopamina è un altro neurotrasmettitore in grado di alimentare in noi il desiderio di novità e di farci provare la sensazione di piacere di fronte ad alcune situazioni, come durante il rapporto sessuale, dopo un lauto pranzo e dopo l’assunzione di cocaina oppure di anfetamine. La dopamina viene definita la sostanza chimica del piacere. Attiva una serie di modelli comportamentali. Motiva gli esseri umani e gli altri mammiferi a ricercare quello che li fa stare bene e rilascia la sensazione di piacere quando l’hanno trovato.

LA DIFFERENZA FRA PIACERE E FELICITA’

«Ci sono sette differenze fondamentali», dice Robert «il piacere è effimero mentre la felicità durevole, il piacere è viscerale e aumenta la pressione e il battito cardiaco mentre la felicità è più spirituale e rilassante, piacere è prendere (lo vediamo nello shopping o nel gioco d’azzardo) mentre alla felicità si arriva con il dare; il piacere può essere ottenuto con sostanze legali o non mentre la felicità è darsi obiettivi e raggiungerli, il piacere è una condizione di solitudine mentre la felicità si sperimenta in società, gli eccessi del piacere provocano dipendenza mentre la felicità no».

IL CERVELLO E’ PROGRAMMATO PER PROVARE EMOZIONI

Il nostro cervello è programmato dunque geneticamente per provare emozioni in situazioni esistenziali nelle quali si trova ad agire. Anzi, egli è programmato dalla natura, come fosse una vera e propria risorsa evolutiva, per trarre piacere dalle azioni che compie, evitando quelle nelle quali il piacere non si prova. Il cervello è in grado di distinguere il piacere dal non-piacere, mentre non distingue il nocivo dall’innocuo, altrimenti sarebbe per tutti i fumatori facile smettere di fumare. Soprattutto il piacere immediato, il bisogno di ricompensa, è il campo della dopamina, mentre la felicità, l’appagamento, quello della serotonina. Sono entrambi due neuro-trasmettitori, ma non potrebbero funzionare in modo più diverso. Possiamo avere piacere e felicità solo se riusciamo a farli lavorare insieme.

Ma ciò non accade. A causa della moderna società che stimola continuamente i meccanismi della ricompensa immediata, del piacere a corto raggio. I circuiti cerebrali sono occupati dalla dopamina, e sempre meno disponibili per produrre serotonina. Per esempio l’abuso delle tecnologie scatena dopamina e riduce la serotonina. «Il bisogno di controllare le e-mail, i messaggi, le notifiche, la tendenza all’accumulo di follower o di like: qui si vede bene la dipendenza psicologica provocata dal bisogno di ricompensa immediata».

La felicità, che è un insieme di emozioni gratificanti e un desiderio di novità, perché la ricerco per provare nuove emozioni rispetto a quelle che già provo, è anche una sorta di innamoramento, perché tendo a confonderla con il piacere fisico che può procurarmi, desiderando mantenerla nel tempo il più a lungo possibile. E questo mantenersi nel tempo implica sia la ricerca di novità che la stabilizzazione delle conquiste piacevoli che ho ottenuto nel tempo.

Anche le religioni, pur basandosi su idee diverse, hanno un denominatore comune: un luogo dove i fedeli possono riunirsi, che sia la chiesa, la moschea o il tempio. La religione genera empatia e serotonina, capace in effetti di generare felicità. Tutta la nostra società è fondata sul meccanismo della soddisfazione immediata e della dipendenza, funziona con le bevande gassate, i dolci, le sigarette, i telefonini. L’abuso degli smartphone è un’altra tendenza contemporanea a lasciarsi irretire dalla gratificazione istantanea.

COME DIFENDERSI DALL’IRRUENZA DELLA DOPAMINA

Le 4 C

Non è facile uscire dalle dipendenze e dalla ricerca del piacere immediato, ne sanno qualcosa le persone che vanno nei centri di recupero per sottrarsi all’alcool o alle droghe.

Il primo passo per guarire è riconoscere di avere un problema. Poi si può provare qualcosa. Per aspirare alla felicità senza accontentarsi del piacere immediato qualcuno suggerisce le quattro C: Connect, cioè privilegiare la connessione sociale tra persone reali; Contribute, ovvero altruismo, volontariato, filantropia; Cope, ovvero fare attenzione alle ore di sonno e dedicarsi alla meditazione; e Cook, cioè cucinare per sé stessi, gli amici, la famiglia. Quando si cucina si è concentrati. Fa bene tutto quello che riduce il multitasking e l’iperstimolazione.

Fino a qualche anno fa erano soprattutto giovani, oggi ad essere colpite sono anche persone di mezza età che, a carico di genitori anziani, né studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata chiusi in casa. A stento parlano con genitori, amici e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della rete e dei social con profili fittizi, unica finestra con la società che hanno abbandonato.

Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione e mezzo di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi. Nel nostro Paese l’associazione Hikikomori Italia parla di almeno 100 mila casi.

Da uno studio commissionato da una agenzia governativa a fine 2018, su individui fra i 40 e i 64 anni, è risultato che più di 600 mila persone possono essere considerate hikikomori, più delle 541 mila fra i 15 e 39 anni. L’80 per cento sono maschi, mentre il 46 per cento di questi reclusi per scelta ha dichiarato di vivere in questa situazione da almeno 7 anni, e il 34 per cento di loro dipende economicamente dai genitori.

I TRE STADI

I stadio. La persona comincia a percepire la pulsione all’isolamento sociale, senza però riuscire a elaborarla consciamente. Si accorge di provare malessere quando si relaziona con altre persone, trovando maggiore sollievo nella solitudine e nelle relazioni virtuali. I comportamenti che caratterizzano questo stadio sono: il rifiuto saltuario di andare a scuola o al lavoro utilizzando scuse di qualsiasi genere, il progressivo abbandono di tutte le attività “parallele” che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno, una graduale inversione del ritmo sonno-veglia e la preferenza per attività solitarie.

II stadio. Si comincia a elaborare consciamente la pulsione all’isolamento e ad attribuirla razionalmente ad alcune relazioni o situazioni sociali. È in questa fase che si cominciano a rifiutare le proposte di uscita degli amici, si abbandona progressivamente la scuola e il lavoro, si inverte totalmente il ritmo sonno-veglia e si trascorre la quasi totalità del proprio tempo chiusi in camera dedicandosi ad attività solitarie. I contatti sociali con il mondo esterno si limitano ora quasi esclusivamente a quelli virtuali, coltivati attraverso il web soprattutto utilizzando chat, forum e giochi online. Viene mantenuto anche un rapporto (spesso conflittuale) con gli altri membri della famiglia.

III stadio. La persona decide di abbandonarsi completamente all’isolamento sociale e si allontana progressivamente anche da genitori/famiglia e dalle relazioni sviluppate in rete. Quest’ultime diventano fonte di grande malessere, in un modo simile alle relazioni sociali canoniche. L’hikikomori sprofonda in un isolamento totale.

Ovviamente queste fasi non sono rigide, i vari stadi si alternano fra ricadute o miglioramenti e peggioramenti.

LE 4 TIPOLOGIE DI HIKIKOMORI 

Maïa Fansten, sociologa francese che da anni si occupa di isolamento sociale, ha proposto una classificazione delle diverse tipologie, prendendo come riferimento le differenti motivazioni che possono trovarsi alla base della scelta del ritiro.

Ritiro alternativo. Questa tipologia di hikikomori decide di isolarsi perché non accetta di adeguarsi alle dinamiche tipiche dell’esistenza moderna. Si tratta di una sorta di ribellione nei confronti della società, che viene vissuta in modo particolarmente negativo e come un’entità opprimente, volta a limitare la propria libertà personale.

Ritiro reazionale. Gli hikikomori che fanno parte di questa categoria vivono, o hanno vissuto, in contesti sfavorevoli che hanno contribuito ad aggravare una tendenza all’isolamento già preesistente. Spesso ricollegano la loro scelta di ritiro a un evento considerato come particolarmente traumatico, avvenuto all’interno del contesto famigliare, oppure nell’ambiente scolastico o in quello sociale e lavorativo. Tutto ciò contribuisce a generare forti reazioni d’ansia, vergogna e stress, che vengono generalizzate a tutti i contesti sociali e compromettono fortemente la loro capacità di stringere relazioni sociali soddisfacenti.

Ritiro dimissionario. Riguarda quegli hikikomori che non riescono a sostenere le pressioni di realizzazione sociale derivanti dalle aspettative genitoriali o, più in generale, dalla società. Questi hikikomori semplicemente decidono di “non giocare”, rifiutandosi di perseguire una qualsiasi carriera scolastica, lavorativa o sociale. Si sentono talmente oppressi dalle aspettative altrui che decidono di nascondersi, alleviando così, almeno in parte, tale sofferenza. Sembra essere proprio questa, ovvero la grande competizione sociale, una delle principali cause della rapida diffusione dell’hikikomori in Giappone.

Ritiro a crisalide. In questo caso l’hikikomori cerca nell’isolamento una fuga da quelle che sono le responsabilità e le incombenze dell’età adulta. Sente di non avere le competenze per affrontarle e questo sentimento provoca in lui una grande paura. L’esistenza viene approcciata con un appiattimento sul presente, mentre i pensieri sul futuro, fonte di grande ansia, vengono rifiutati ed evitati. In questo modo, è come se l’hikikomori volesse congelare il tempo, adottando consciamente o inconsciamente delle strategie mirate a tale scopo (ad esempio, invertendo il ritmo sonno-veglia per non soffrire la sensazione di essere inattivo durante il giorno).

LA STORIA DI MARIO, GIULIO E MARIA…

L’odissea di Mario, non ha né un inizio né una fine ben precisi. “La cosa peggiore di quel periodo è l’assenza di ricordi, di cose memorabili. Era come se non esistessi”. Di certo c’è solo che i suoi genitori, oberati di lavoro, lo lasciavano da solo molte ore al giorno già quando era poco più di un bambino. E che poi, a 16 anni, una delusione amorosa lo ha “devastato completamente”, annientando qualsiasi capacità di fidarsi delle altre persone: “Da quel momento ho smesso di uscire. Sono andato a casa, mi sono chiuso in camera e là sono rimasto”.

In quella stanza Mario rimane per otto anni. Le sue giornate si susseguono uguali. Leggere diventa il suo quotidiano. Divora tutti i libri che gli capitano tra le mani.  Dopo tutti quegli anni, Mario comincia finalmente a intravedere la luce in fondo al tunnel, grazie all’aiuto dell’associazione Hikikomori Italia, fondata nel 2013 dal dottor Marco Crepaldi.

E poi, c’è Giulio, il nome è di fantasia. Che sulla sua pagina social racconta la sua vita. Il video dura venti minuti. Dalle sue labbra non esce parola. Rimane in silenzio fissando la telecamera del cellulare. La scritta: “Cerco una compagna, non posso parlare”. Basta scorrere la bacheca Facebook per scoprire che lo fa ogni settimana e che ogni settimana non riceve risposta. Giulio ha 35 anni. Non esce di casa, non ha contatti con l’esterno e non lavora.

Come lui Maria, stessa necessità di rimanere prigioniera della sua camera. Digitando, da chissà quale città, pretende sostegno. Così continuando per altri centinaia di account, tutti membri della chat Hikikomori Italia. “Ho deciso di mollare completamente la vita sociale all’età di 14 anni – confida un utente – e ora ne ho 25. Da allora passo tutto il mio tempo al computer videogiocando o semplicemente navigando. Ho deciso di spostarmi nella realtà virtuale”.

Storie che si sovrappongono raccontate nella chat come nel forum: «La mia massima conquista – ammette una ragazza – è uscire in giardino, al mattino prima che tutti si sveglino, o di notte. Per me basta che non ci sia nessuno. È come scalare l’Everest ogni volta».  Poi c’è Anna, 46 anni, da due anni non mette piede fuori dal letto: «È una condizione triste, ma non posso fare altrimenti». I “motivatori”, chi ce l’ha fatta, si attivano ma dopo poche frasi iniziano gli attacchi reciproci e Anna decide di uscire dalla chat. Torna nel suo letto, questa volta lontana dai giudizi.

IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA SOLITUDINE

Uno dei principali fattori di rischio è l’allontanamento progressivo dalla società. Spesso gli amici, anche quelli di vecchia data, vengono rifiutati in modo apparentemente ingiustificato. Questo può essere considerato l’ultimo step dell’hikikomori, quello più grave e dal quale è più difficile tornare indietro. Perché la solitudine genera solitudine, generando un vero e proprio circolo vizioso.

A supporto di questa tesi un recente studio condotto in Belgio che ha coinvolto 730 adolescenti.
Ai partecipanti sono state presentate due diverse tipologie di scenario:

  • Scenario di inclusione sociale: “Viene inaugurata una nuova panineria in città. Alcuni dei tuoi compagni di classe ci andranno per pranzo e ti hanno chiesto se vuoi unirti a loro.”
  • Scenario di esclusione sociale: “Vedi su Facebook una foto di un compleanno di classe al quale tu non sei stato invitato.”

I partecipanti che precedentemente erano stati classificati come “più solitari” hanno vissuto la situazione di esclusione sociale in modo maggiormente negativo rispetto agli altri (manifestando alti livelli di rabbia, delusione e gelosia), attribuendo tale esclusione alle proprie caratteristiche personali (aspetto, carattere, ecc.). Ancor più interessanti, tuttavia, sono state le reazioni di questi ragazzi nella situazione di inclusione sociale (ovvero quando erano stati effettivamente invitati dagli amici). Anche in questo caso l’entusiasmo mostrato è risultato molto basso, semplicemente perché l’invito è stato vissuto come frutto del caso o comunque legato a un secondo fine.

LA SOLITUDINE GENERA SOLITUDINE

Questo sembra essere un meccanismo mentale che si verifica spesso negli hikikomori, persone che hanno un’alta considerazione di sè, ma che tendono a sviluppare una forte sfiducia nei confronti degli altri. Così, anche quando ricevono inviti spontanei e sinceri, tendono a interpretarli con sospetto, facendo pensieri del tipo: “Lo ha fatto solo perché si sentiva in obbligo, non gli interessa veramente se vengo anche io”, oppure “Vogliono solo prendersi gioco di me.”

In riferimento a questo meccanismo rafforzativo della solitudine, Weeks Molly, coautrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Neuroscienze della Duke University, spiega: “Questi risultati ci mostrano che gli adolescenti più solitari sembrano rispondere alle situazioni sociali in modo tale da perpetuare la propria solitudine. La ricerca futura dovrebbe indagare quando e come la solitudine temporanea diventa solitudine cronica e capire come si possa intervenire per evitare che ciò accada.”

PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE

Questo detto, seppur abusato, continua ad essere il consiglio migliore. Dalla sindrome si può uscire con l’aiuto di psicoterapeuti e psichiatri, ma molto si può fare già in termini di prevenzione.

  • Quando ci si accorge che il proprio figlio non vuole andare a scuola, occorre capire che potrebbe non essere un capriccio ma la manifestazione di un disagio. In questo caso non va riportato subito a scuola, ma bisogna iniziare ad allentare la pressione: il ritorno a scuola è l’obiettivo, non lo strumento.
  • Sospendi il giudizio sulla sua visione della vita e vai incontro a tuo figlio, comprendendo da dove origina la sua ansia, cioè nella difficoltà di stare nell’ambiente sociale della scuola. Spesso questi ragazzi diventano anche vittime di bullismo proprio per la loro diversità dal comune sentire.
  • Invita i ragazzi a coltivare interessi e passioni, insegnando ad accettare i complimenti come le critiche, impedendo che si fissino su modelli troppo alti e distanti, spesso inesistenti, altrimenti si vedranno sempre, inevitabilmente, inadeguati.
  • Non privare tuo figlio del computer, ma cerca di mantenere il più possibile una comunicazione aperta con lui
  • Non aver paura a rivolgersi a specialisti che possano aiutarti ad affrontare il problema

Quando siamo alla guida di un’auto, diventiamo più aggressivi e talvolta anche inaspettatamente violenti. Vi siete mai chiesti perché?

Lo stress al volante e il conseguente sfogo con reazioni aggressive è tra i casi più studiati dagli etologi di violenza urbana. Tanto che è stato dato un nome tecnico alla questione: road rage (rabbia da strada). Secondo gli psicologi evoluzionisti, questo tipo di collera segue uno schema: inizia sempre con insulti e minacce verbali e gestuali, spesso enfatizzati da fari e clacson.

Per fortuna, solitamente, ci si ferma qui. L’auto è una scatola protettiva, e visto che gli esseri umani rifuggono il contatto con gli sconosciuti, difficilmente scendono dal veicolo. Ma ci sono situazioni limite: una di queste è la violazione delle norme implicite della convivenza cittadina. Ci si può infuriare, per esempio, per un parcheggio rubato e perché la mancata cortesia da parte dell’altro automobilista viene vissuta come un’ingiustizia che va vendicata.

Nella nostra specie la vendetta non è solo punitiva ma è spesso soprattutto riparativa: serve a ricomporre l’ordine sociale. E per questo non si esita a metterla in atto, costi quel che costi.

QUANTO E’ DIFFUSA LA ROAD RAGE

Secondo studi internazionali oltre il 50% degli automobilisti è stato coinvolto in almeno un episodio di rabbia al volante. E anche se il 70% di coloro che li hanno provocati è consapevole di aver generato problemi a guidatori o passanti, solo il 14% mostra qualche forma di pentimento, gli altri danno a se stessi l’alibi del cattivo umore.

In fondo, è proprio così: l’aggressività in auto dipenderebbe proprio dal sovraccarico cognitivo, vale a dire dall’attenzione ai numerosi segnali necessari per guidare che attivano nel nostro cervello le stesse aree che, fino a qualche migliaio di anni fa, si attivavano nelle situazioni in cui si poteva incontrare un predatore in agguato.

Gli studi hanno dimostrato che i più soggetti alla road rage sono giovani uomini che vivono in centri urbani oltre i 10 mila abitanti, soprattutto se ulteriormente stressati per ragioni di lavoro.

TIGRI DI CITTA’

Il road rage è soltanto il caso più studiato di reazioni aggressive in caso di stress. Ce ne sono molti altri e tutti legati all’ambiente urbano. Le auto che incrociamo da ogni lato sono come tigri dai denti a sciabola in agguato nella boscaglia.

Gli appartamenti nei grandi condomìni sono rifugi in cui si riuniscono clan pronti ad affrontarsi tra loro. La metropolitana affollata è come la gabbia in cui circolano i topi di laboratorio, con la differenza che mentre i topi a disagio arrivano ad azzannarsi tra loro, noi ci limitiamo a desiderare che la nostra fermata arrivi presto, e in qualche caso non esitiamo a menare qualche gomitata per difendere pochi centimetri residui di spazio.

Nessuna esagerazione: lo dicono etologi e psicologi sociali. La città è una giungla. O meglio, un ambiente al quale la specie umana non si è ancora completamente adattata, capace di stimolare i nostri peggiori istinti (le reazioni aggressive).

Siamo infatti programmati per vivere in piccoli gruppi all’interno dei quali si formano forti legami sociali, proprio come avviene ancora oggi nelle comunità di cacciatori-raccoglitori, ma anche nei paesini di campagna dove tutti si conoscono. Peccato che oltre la metà della popolazione mondiale viva però in centri urbani medio-grandi. È quindi normale che le situazioni di affollamento in cui l’individuo è costretto a convivere con sconosciuti, nei confronti dei quali ognuno di noi nutre un’istintiva diffidenza, diventino a rischio.

In città quindi non sbagliamo se diciamo che diventiamo più pericolosi.
Le ricerche (come quelle appena citate sulla road rage) dimostrano che la ragione è che gli urbanizzati sono molto più stressati. Anzi, secondo i ricercatori dell’Università di Mannheim (Germania), lo stress da città lascia un marchio nel cervello.

Se si mettono delle persone in condizioni di stress sociale, infatti, una piccola zona cerebrale (l’amigdala) si attiva di più se la persona è cresciuta in città. E si attiva di più anche la corteccia cingolata anteriore. L’amigdala è una struttura cerebrale grande come un pisello che si trova in entrambi i lobi temporali, in profondità, e svolge la funzione di sensore del pericolo, provocando una reazione nell’organismo non appena viene percepita una minaccia. La corteccia cingolata è anch’essa coinvolta nell’elaborazione della risposta al pericolo. Risposta che, ovviamente, può essere aggressiva.

COME LA METTIAMO CON IL CIBO?

A renderci più reattivi e aggressivi è anche la fame. Non a caso, tutti, se costretti al digiuno, diventiamo intrattabili. La colpa però non è vostra: a provocare parte delle scenate e urla isteriche in orario da pasto sono i bassi livelli di glucosio nel sangue.

Il controllo degli stimoli aggressivi richiede energia, e il glucosio è l’unica fonte energetica accettata dal nostro cervello. Se non ne produciamo abbastanza, la rabbia ha la meglio sulle buone maniere: è scientificamente dimostrato.

In un recente studio, i ricercatori della Ohio State University hanno monitorato i livelli di aggressività di entrambi i membri di 107 coppie di coniugi per tre settimane. Ai soggetti sono state fornite bamboline voodoo con 51 spilloni, per rappresentare la “dolce” metà, ed è stata data la possibilità di assordare il coniuge con rumori più o meno molesti. Chi aveva livelli di glucosio nel sangue più bassi ha inflitto più punture nelle bambole, e torturato il partner con rumori più lunghi e fastidiosi, di chi mostrava livelli di zucchero nella norma.

Altre ricerche hanno dimostrato, per esempio, che chi beve limonata zuccherata si comporta, nei minuti seguenti, in modo più pacifico di chi ha bevuto un placebo. Molto dipende, naturalmente, anche dalla velocità e dall’efficienza con cui l’organismo metabolizza il glucosio. Ecco perché, a parità di ore di digiuno, alcuni risultano più simpatici di altri.

TUTTA COLPA DEI NEURONI

Nello specifico della rabbia i ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia hanno individuato il gruppo di neuroni che fa scattare i comportamenti aggressivi… nei topi.

In realtà oltre ad averli scoperti, sono riusciti a manipolarli, arrivando a controllare il comportamento dei roditori.

I ricercatori svedesi hanno rivolto la loro attenzione a un piccolo gruppo di neuroni, quelli del nucleo premamillare ventrale, dell’ipotalamo, la centralina del cervello che controlla molti degli istinti legati ai bisogni fondamentali, dal sonno all’appetito. Sarebbero proprio queste cellule a svolgere un ruolo chiave nei comportamenti aggressivi.

Studiando le interazioni tra topi maschi, gli scienziati avevano già notato che gli animali che si dimostravano più aggressivi verso un nuovo compagno messo nella loro gabbia erano anche quelli che avevano una maggiore attività nei neuroni del nucleo premamillare ventrale dell’ipotalamo.

Usando tecniche di optogenetica, che consentono di “accendere” o “spegnere” particolari gruppi di cellule in topi geneticamente modificati, gli scienziati sono anche riusciti a controllare questo comportamento, rendendo aggressivi i topi anche in situazioni in cui normalmente questi animali non attaccano, o al contrario “calmandoli” quando l’aggressione era già scattata.

Non solo. Per studiare la dominanza sociale si utilizza il  cosiddetto “test del corridoio”, in cui due topi vengono fatti avanzare uno verso l’altro in un tubo stretto, per determinare qual è quello più in alto nella gerarchia. Controllando i neuroni del nucleo premamillare, i ricercatori sono riusciti a scambiare la gerarchia, e a trasformare il topo dominante in subalterno e viceversa.

Conoscendo meglio i comportamenti legati all’aggressione si potrà arrivare un giorno a controllarla? Questa è la domanda a cui la scienza non ha ancora una risposta, ma che interessa tutti, in un modo o in un altro. Aggressori e aggrediti, automobilisti e pedoni, chi è calmo e chi è sempre sotto stress. Nel frattempo, ci possiamo sempre sfogare su bamboline voodoo, sapendo che almeno lì danni non ne facciamo…