Se solo ricordassi dove ho messo le chiavi dell’auto… E il ritornello di quella canzone, quel tormentone estivo… l’ho cantato tutta l’estate, possibile che ora non riesco a farmelo tornare alla mente… Già la memoria, capace di farsi necessità proprio quando la perdiamo.
E proprio mentre ero concentrato a ricordare dove avessi lasciato gli occhiali, sì tra le altre cose, perdo anche gli occhiali, non ho potuto fare a meno di documentarmi. Chissà, mi sono detto, che la conoscenza non rafforzi anche la memoria.
VIS à VIS CON LA MEMORIA
I neuroni, per comunicare, si scambiano sostanze chimiche che li inducono a generare specifici impulsi elettrici. Immagina di ripetere questo processo miliardi di volte ed ecco che, pur se in maniera semplificata, avrai ottenuto il trasferimento di un’informazione (visiva, auditiva…) all’interno di un circuito neuronale del cervello umano.
Ma questo, ti starai domandando, che relazione ha con i processi di memorizzazione e ricordo?
Immagina di venir catturato da un profumo, una essenza che non conosci. Questa informazione immediatamente viaggerà dal naso, lungo il nervo olfattivo, fino alla parte del cervello organizzata per analizzare e comprendere i profumi. Nel fare ciò, l’informazione attraverserà un numero enorme di sinapsi creando l’equivalente di un “sentiero” neuronale. Al ripetersi dell’esperienza, l’informazione viaggerà nuovamente lungo lo stesso percorso rinforzandolo, proprio come il passaggio di molte persone in un prato crea un sentiero.
Questo processo è la base fisica del ricordo.
Lo stesso accade quando si cerca di memorizzare il numero del Bancomat o il numero di un cellulare: occorrerà ricomporlo più volte prima di fissarlo nella memoria. A meno che non si usino strategie di memorizzazione che legano il nuovo numero a percorsi già formati… sarebbe facile per esempio ricordare un numero come 191518 collegandolo al concetto “I guerra mondiale” (cominciata nel 1915 e finita nel 1918).
Questo spiega anche il perché è difficile ricordare una canzone o una poesia partendo dalla terza o quarta strofa e non dall’inizio. Poiché l’intera memorizzazione fa parte di un percorso: solo imboccandolo dall’inizio si riesce a ripercorrerlo senza difficoltà.
H. M.
Molto di ciò che sappiamo sulla memoria si deve a un paziente identificato con la sigla H. M., che a causa di una grave epilessia subì la rimozione di alcune parti del cervello. Migliorò, ma perse completamente la capacità di fissare nuovi ricordi perché le aree rimosse (una parte dei lobi temporali che comprendeva l’ippocampo) erano quelle coinvolte nella formazione della memoria. H.M. manteneva i ricordi di quando era piccolo, perché le regioni temporali sono necessarie alle memorizzazione, ma poi i ricordi sono immagazzinati in altre aree. In generale, la memoria dichiarativa (per esempio ricordare un numero) risiede nelle aree della corteccia, mentre quella procedurale (per esempio come si va in bicicletta) dipende da altre regioni, come i gangli della base.
DOVE FINISCONO I RICORDI?
La scienza ancora non ha risposto per intero al quesito. Sappiamo però che i ricordi non vengono immagazzinati nel cervello come fotografie, ma vengono scomposti nei loro costituenti (colore, sapore, movimento, profondità, intensità, suono ecc).
Il mistero è come facciano i frammenti dispersi nelle varie aree del cervello a ricomporsi, all’occorrenza, in qualche millesimo di secondo, facendo riemergere il ricordo completo.
COME ORGANIZZIAMO I RICORDI NELLA NOSTRA MENTE
Il cervello umano dispone di una sorta di “orologio” che tiene il tempo degli eventi che viviamo nel corso della giornata, ne registra l’orario e mantiene traccia dell’ordine con cui sono accaduti. È una rete di neuroni lo strumento che ci consente di disporre i nostri ricordi su una scala temporale ed è localizzata nell’emisfero destro, vicino all’area che regola la nostra esperienza dello spazio. A scoprirla un team di ricercatori norvegesi del Kavli Institute for Systems Neuroscience, diretto da Edvard Moser che nel 2014 ha vinto il Nobel per la medicina, insieme alla moglie May-Britt e a John O’Keefe, per la scoperta del ‘gps’ del cervello. La ricerca è reperibile anche sulla rivista Nature.
“I nostri studi mostrano come la mente riesca ad assegnare un senso temporale a un evento nel momento in cui lo viviamo – spiega Albert Tsao, uno degli autori della ricerca. – Questa rete di neuroni non codifica il tempo in modo esplicito: quello che noi misuriamo è piuttosto un tempo soggettivo che deriva dal flusso continuo dell’esperienza“.
A ispirare la ricerca è stato proprio lo studio precedente condotto da Moser e premiato con il Nobel. Tsao si propose di scoprire ciò che accadeva nella misteriosa corteccia entorinale laterale, che è proprio accanto all’area in cui i Moser avevano scoperto la griglia di cellule con cui il nostro cervello costruisce la mappa dello spazio che ci circonda.
Sulle prime gli scienziati non riuscivano a raccapezzarsi. “Il segnale cambiava continuamente, non sembrava che l’attività di queste cellule seguisse uno schema“, ricorda Moser. Tre anni or sono hanno iniziato a sospettare che il segnale mutava sì di continuo, ma perché seguiva lo scorrere del tempo. “All’improvviso i dati che avevamo raccolto iniziavano ad avere senso“.
In laboratorio sono stati condotti due esperimenti per testare l’ipotesi che la rete di neuroni individuata servisse a riorganizzare temporalmente ricordi ed eventi. I ricercatori hanno monitorato l’attività cerebrale dei topi, impegnati in alcuni compiti, e hanno scoperto che con il segnale “del tempo” registrato potevano tracciare gli eventi che si erano succeduti nelle due ore di esperimento. “Lo studio mostra che cambiando l’attività in cui siamo impegnati – spiega Moser – cambiamo anche il corso del segnale-tempo e il modo in cui percepiamo il tempo“.
SE I RICORDI SONO BRUTTI?
Il neuroscienziato della Boston University Steve Ramirez e Briana Chen della Columbia University, hanno scoperto che nell’ippocampo – una piccola porzione cerebrale che immagazzina le informazioni sensoriali ed emotive di cui sono fatti i ricordi – si nasconde una sorta di’interruttore della memoria. Un interruttore flessibile, che cambia funzione a seconda di dove si trova.
Dopo avere identificato le cellule che partecipano alla costruzione dei ricordi, i test hanno dimostrato che, stimolando artificialmente le cellule della memoria situate nella parte superiore dell’ippocampo, il trauma collegato ai cattivi ricordi si attenua; al contrario, stimolando le cellule della parte inferiore la paura che si prova richiamando alla mente memorie negative aumenta, a indicare che quest’area potrebbe essere iperattiva quando un ricordo diventa talmente angosciante da scatenare una malattia. Almeno in teoria, dunque, spegnere questa iperattività potrebbe aiutare a trattare patologie come lo stress post traumatico o i disturbi d’ansia.
“Il campo della manipolazione della memoria è ancora giovane“, spiega Ramirez. “Sembra fantascientifico ma questo lavoro è un’anteprima di ciò che verrà in termini di capacità di potenziare artificialmente i ricordi di una persona o di cancellarli“.
Attenzione però: l’esperimento è avvenuto sui topi, animali con un cervello molto diverso dal nostro. Quanto eseguito sulle cavie, dunque, è ancora “molto lontano dall’essere in grado di farlo negli esseri umani – puntualizza Chen – Ma la dimostrazione del concetto c’è” e, “come a Steve piace dire: mai dire mai, niente è impossibile“.
Mentre termino queste allettanti letture, ritrovo le chiavi in frigo e il contenitore del latte in lavanderia. La mia memoria ha grandi spazi di miglioramento!
Continua…